Il post rimarrà per il momento incompiuto. Quello che tento di dire è che mi sono trovato di fronte ad una persona che mi ha offeso (le ho poi risposto per le rime) perché non avevo a suo avviso tenuto conto del fatto che "fanno più figli di noi".
Nel fuoco della polemica il soggetto della frase si è perso, e non si capisce esattamente se costei alludeva agli stranieri immigrati od agli stranieri in genere; non mi è parso il caso di chiedere spiegazioni, ma penso che sia opportuno chiarire il mio pensiero.
I biologi distinguono le specie viventi in "strateghe-r" e "strateghe-K". Le "strateghe-r" cercano di procreare il più possibile fino ad esaurire le risorse naturali disponibili; le "strateghe-K" sono più prudenti, e puntano sulla qualità e non sulla quantità della prole.
Quando l'uomo era cacciatore e raccoglitore, praticava la "strategia-K": le tribù superstiti di cacciatori e raccoglitori praticano un rigoroso controllo delle nascite ed addestrano i loro figli e figlie al meglio per sopravvivere in un ambiente in cui nulla è scontato.
L'agricoltura ha fatto dell'uomo uno "stratega-r": per impugnare una zappa non c'è bisogno dell'abilità di chi tira con l'arco, e per irrigare un terreno non c'è bisogno di essere più astuti delle piante che si vogliono coltivare. Ma di questa manodopera così dequalificata l'agricoltura ha un enorme bisogno, innescando un circolo vizioso, per cui, più manodopera c'è, più cibo si produce; ma più manodopera c'è, di più cibo si ha bisogno.
Se non è possibile aumentare la produttività dei terreni (perché la rivoluzione industriale arriverà fra molti secoli), l'unico modo per aumentare la produzione di cibo è acquisire nuovi terreni - dissodandoli oppure conquistandoli.
Per cui, le società agricole sono molto bellicose (anche quando non vogliono invadere il terreno altrui, devono comunque difendersi da chi vuole impadronirsi del loro) e molto prolifiche. In una società agricola i figli sono letteralmente una ricchezza.
Ma nelle società agricole, finché la crescita della popolazione non esaurisce le risorse del territorio, si può produrre abbastanza cibo da mantenere anche chi non lo procura; questo ha fatto nascere una classe di sacerdoti prima ed intellettuali poi, che hanno avviato il progresso culturale e tecnico fino a portare alle società industriali e postindustriali, in cui basta meno del 2% delle persone a produrre cibo sufficiente per il 100% - se molte persone al mondo soffrono ancora la fame, non è perché il cibo è insufficiente, ma perché è mal distribuito.
A questo punto la prolificità non è più necessaria - in molte colture le macchine agricole sostituiscono vantaggiosamente i braccianti, e quello che ora un bambino deve temere non è di non trovare abbastanza terra da lavorare, ma di non essere abbastanza intelligente e preparato per tenere almeno il passo con i suoi pari.
Nella società attuale la strategia migliore è di nuovo la "strategia-K": pochi figli e ben preparati, perché nella giungla che è la moderna società le belve più feroci hanno due gambe e parlano anziché ruggire.
Gli abitanti di molti paesi mussulmani sono giunti alla medesima conclusione, incoraggiati oltretutto dal fatto che l'islam non si è mai opposto al controllo delle nascite, ed in questi paesi la natalità è ormai a livelli europei od addirittura italiani.
A questo punto, preoccuparsi della prolificità degli stranieri in confronto a quella degli italiani è o una grande sciocchezza, oppure un sintomo preoccupante.
Se l'Italia fosse un paese evoluto come gli USA, sarebbe una grande sciocchezza. Gli americani non si sono mai preoccupati di queste quisquilie, perché sono una società fortemente meritocratica - e sono convinti che da loro una persona riesce ad avere solo in proporzione di quello che riesce a dare, per cui non può mai capitare che nel loro paese, come dicono in Sardegna, "si stia al mondo solo perché c'è posto".
Certo, quest'ideale andrebbe moderato dall'attenzione verso chi è nel bisogno, ma rende comunque superfluo temere di venire invasi da maree di inetti, la cui unica forza sarà la prolificità.
L'Italia però non è un paese evoluto, anzi, è in via di involuzione. Formalmente, siamo un paese postindustriale; in realtà noi siamo un paese feudale in cui la ricchezza ed il rango sociale si ereditano. Quest'ereditarietà impigrisce le ultime generazioni, perché sanno di non poter aggiungere granché a ciò che hanno creato i loro avi, le rende più attente ad amministrare il proprio prestigio che a cogliere le opportunità, e le rende incapaci di agire con la decisione di chi si gioca ogni volta tutto.
La paura degli immigrati o degli stranieri (che in Italia è particolarmente elevata) non è che l'ultima reincarnazione della paura che il nobile di antico lignaggio ha del parvenu, paura proporzionale all'incapacità del primo di evolversi e superare le convenzioni sociali obsolete che lo ingessano.
Ed il timore di essere numericamente (e politicamente od elettoralmente) sopraffatti dagli immigrati corrisponde ai timori che i ceti più elevati manifestavano ogni volta che veniva allargato il suffragio - ed allora come ora è la dimostrazione del sentirsi incapaci di convincere i nuovi elettori della giustezza del proprio modo di vivere.
In altre parole: si sa di essere nel torto, e si fa di tutto per rimandare la resa dei conti. La democrazia in Italia non è servita a guarire il paese da queste paure, ma a spalmarle in tutto il popolo.
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