giovedì 14 agosto 2014

La parabola del fattore infedele

La parabola di Matteo 13:44 che ho commentato qui, ad una lettura superficiale incoraggia la disonestà, e questa lettura verrebbe corroborata dal fatto che nel genere letterario della parabola non si danno giudizi morali, e da un'altra parabola con un protagonista disonesto, quella di Luca 16:1-13, che per comodità vi riporto nella versione de La Nuova Riveduta:
1 Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un fattore, il quale fu accusato davanti a lui di sperperare i suoi beni.
2 Egli lo chiamò e gli disse: "Che cos'è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché tu non puoi più essere mio fattore".
3 Il fattore disse fra sé: "Che farò, ora che il padrone mi toglie l'amministrazione? Di zappare non sono capace; di mendicare mi vergogno.
4 So quello che farò, perché qualcuno mi riceva in casa sua quando dovrò lasciare l'amministrazione".
5 Fece venire uno per uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: "Quanto devi al mio padrone?"
6 Quello rispose: "Cento bati d'olio". Egli disse: "Prendi la tua scritta, siedi, e scrivi presto: cinquanta".
7 Poi disse a un altro: "E tu, quanto devi?" Quello rispose: "Cento cori di grano". Egli disse: "Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta".
8 E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce.
9 E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne. 
10 Chi è fedele nelle cose minime, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle cose minime, è ingiusto anche nelle grandi. 
11 Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere? 
12 E, se non siete stati fedeli nei beni altrui, chi vi darà i vostri? 
13 Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona». 
I commenti del sito LaParola.Net e quello del cattolico Bruno Maggioni non hanno nessun dubbio: quel fattore è proprio un farabutto, e Gesù loda di lui soltanto la prontezza nel garantirsi un avvenire, che i suoi discepoli dovrebbero prendere ad esempio, non certo i mezzi usati.

Altre persone non sono altrettanto sicure di questo - anche senza giungere all'estremo di Giuliano l'Apostata, che secondo LaParola.Net motivò la sua apostasia proprio per la frode lodata in questa parabola, sentono che non è possibile che Gesù avesse consigliato proprio questo.

Questo impedisce di usare la parabola di Luca a sostegno dell'interpretazione pedestre di quella di Matteo: se tutti si sentono a disagio quando il Vangelo sembra consigliare la disonestà, è lecito immaginare che Gesù stesso se ne rendesse conto ed avesse usato l'apparente disonestà di codeste parabole come esca e pungolo.

Esca per attirare l'attenzione, pungolo (vedi qui) per costringere i discepoli più motivati ad indagare ed a trovare una spiegazione che eliminasse il motivo di scandalo.

Di queste spiegazioni, la più usata (per esempio, da Gianfranco Ravasi) è che il fattore, come capitava in quel tempo e luogo, era pagato a provvigione.

Perciò, quando condona in parte i debiti ai debitori del padrone (che erano certamente più di due, ma Gesù non poteva abusare della pazienza degli ascoltatori), il fattore in realtà rinuncia solo alla sua provvigione - ed il padrone non subisce danno.

Per questo il padrone lo loda sinceramente anziché lasciarsi scappare un'imprecazione che potete certo immaginare!

Non tutti apprezzano questa spiegazione, ed io ho i miei motivi per farlo. Avverto che non sono un esegeta, ma un impiegato di banca, e penso di potermi immedesimare nella situazione del fattore infedele - anche la mia banca amministra i beni altrui.

Può capitare che una persona venga licenziata non per sua colpa, ma perché troppo screditata dalle chiacchere - se non si riesce a riabilitare il suo nome, lei può essere costretta a dimettersi perché il suo disonore nuoce anche al suo datore di lavoro.

È la situazione della parabola; infatti, se veramente il padrone si è convinto che il fattore sia disonesto, perché gli chiede il rendiconto? Per dargli un'occasione in più di imbrogliarlo?

Se un impiegato di banca viene accusato di malversazione, non gli si chiede il rendiconto - gli si impedisce di rimetter piede nella "scena del delitto" per timore che inquini le prove, e si chiede al Servizio Compliance (detto un tempo Ispettorato) di verificare le sue operazioni per individuare le sue eventuali malefatte.

I mezzi sono diversi, ma penso che duemila anni fa si facesse la stessa cosa: chi temeva di essere frodato dal proprio uomo di fiducia non gli chiedeva il rendiconto, lo cacciava immediatamente e chiedeva ad una terza persona di verificare i conti.

Se il padrone non agisce così, vuol dire che è convinto che il fattore sia impopolare, non disonesto. Lui deve revocargli l'incarico perché il fattore si è fatto molti nemici, che hanno ucciso la sua reputazione, ma non gli revoca la fiducia.

Inoltre, perché i debitori vengono convocati dal fattore uscente e non da un'altra persona? Se quello uscente si fosse dimostrato davvero disonesto, avrebbe dovuto essere un'altra persona a convocarli tutti per la verifica dei conti.

Posso citare un esempio: il fornitore di un'associazione era in società con altri, e quando fu pagato non registrò il pagamento, perché volle sottrarre il denaro ai suoi soci. Fu l'avvocato di costoro a convocare il presidente dell'associazione per verificare la situazione, non il socio disonesto in cerca di un nuovo lavoro!

E perché i debitori accettano di incontrare il loro fattore, accusato di malversazione? Era rischioso per loro abboccarsi con lui, in quanto potevano essere sospettati di esserne stati complici.

La spiegazione che mi viene in mente è che loro lo hanno incontrato perché esortati dal suo padrone, che probabilmente era presente all'incontro - nel Vangelo non è scritto che lui era assente, ma che ratificò e lodò infine l'operato del fattore. Glielo hanno riferito, od ha assistito?

I commentatori citati da LaParola.Net hanno oltretutto notato una cosa ovvia, cioè che un buon amministratore non ha bisogno che siano i debitori a ricordargli quanto gli devono, ma non ne hanno tratto le conseguenze: se lui conosce la posizione di ogni debitore (se non fosse così, il padrone si sarebbe comportato diversamente), perché li convoca tutti?

Secondo me, l'idea del fattore è molto sofisticata, e molto più onesta di quello che sembra: lui ha pensato, ed il padrone ha convenuto, che le voci contro di lui sono partite da alcuni dei debitori, e volevano identificarli, dar loro una lezione, e riabilitare il calunniato fattore.

Non era difficile: loro hanno pensato che  i colpevoli, per dare credito a codeste voci, alla domanda: "Quanto devi al mio padrone?" non avrebbero risposto dicendo il vero, ma gonfiando il loro debito, per far credere che, se il padrone non aveva mai ricevuto nemmeno gli interessi sul dichiarato, era colpa della disonestà del fattore.

Ed infatti il primo dichiarerà di dovere il doppio del vero, il secondo il 25% in più; non sappiamo se anche gli altri debitori hanno esagerato, ma il mio sospetto è che, come previsto, soltanto chi ce l'aveva con il fattore ed ha fatto nascere quelle voci lo abbia fatto. Chi era contento di lui non aveva motivo di farsi del male dichiarando il falso. 

Ma il fattore rimette le cose a posto chiedendo ad ognuno solo quello che deve davvero. Si rifiuta di approfittare della situazione per punire chi lo ha accusato a torto. Lui non ha voluto comprare i favori altrui con una truffa, ma dare prova di onestà e magnanimità - che per chi cerca lavoro come "kalkal/oikonomos/amministratore" sono la migliore raccomandazione.

Il piano è riuscito alla perfezione, e per questo il padrone che stava per licenziarlo a malincuore (se poi lo ha fatto comunque, è un interessante problema teologico) lo loda di cuore per la sua avvedutezza.

Si obbietterà che il versetto 8 parla di "fattore disonesto" ed il versetto 9 di "ricchezze ingiuste". Per rispondere, devo guardare il testo greco: la locuzione "il fattore disonesto" traduce "ton oikonomon tes adikias" e la locuzione "con le ricchezze ingiuste" traduce "ek tou mamona tes adikias".

È vero che il greco del Vangelo, ed il latino della Vulgata, ricalcano la preferenza delle lingue semitiche per i complementi di specificazione in luogo degli aggettivi qualificativi - per cui è lecito tradurre "tes adikias" come "ingiusto" anziché "dell'ingiustizia" - ma credo che in questo caso non sia corretto.

"Mamona" è una parola aramaica che vuol dire "denaro, patrimonio", e corrisponde all'ebraico "mamon", col medesimo significato. Sapete come si dice "frode" nell'ebraico d'oggi? "Honaah", una parola che credo di origine aramaica.

Secondo me, l'autore originario della parabola, in lingua aramaica, si è divertito a proporre un gioco di parole tra "mamona" ed "honaah", tra "denaro" e "frode"; il traduttore in greco lo ha apprezzato, ed ha cercato di riprodurlo - ed anche un commentatore cattolico contemporaneo (di cui non ricordo ohimé il nome) se ne è reso conto.

Non sono quindi il primo ad osservare che la parola "adikia", che in greco significa "ingiustizia", non traduce in questo caso l'"ingiustizia" come categoria concettuale, ma una "frode" specifica, quella architettata nella parabola.

La "mamona" della "honaah" è quindi "il provento della frode", ed il "kalkal ha-honaah [così si direbbe in ebraico]" non è un "fattore disonesto", ma il "gestore della frode", per conto del padrone.

Il versetto 11 non è un argomento contrario, perché in esso "nelle ricchezze ingiuste" traduce "en to adiko mamona" - il testo greco qui usa un aggettivo qualificativo in luogo di un complemento di specificazione. Si sta parlando di un'altra cosa, forse tratta da un discorso di Gesù pronunciato in altra occasione (sospetto espresso da alcuni degli esegeti citati qui) in cui egli confronta le ricchezze illusorie con quelle autentiche.

Tornando alla parabola vera e propria, vi si descrive una bella trappola ed una meravigliosa punizione per chi ha calunniato il fattore; ma il "kalkal/oikonomos" sapeva che non era il caso di lucrare "il provento della frode", ma di rinunziarvi per farsi degli amici, dimostrando di avere i loro beni a cuore come i propri, per meritare di amministrarli.

Un'obiezione sollevata è che nei versetti 6 e 7 il fattore dice ai due debitori citati: "Prendi la tua scritta e scrivi ...", che corrisponde al greco: "Dexai sou to gramma kai graphon ..."; un esegeta qui citato fa di questi versetti un punto di forza, in quanto sembra che il fattore ordini ai debitori di manomettere dei pagherò cambiari.

In realtà, non è scritto nella parabola che si trattava di pagherò già compilati con un diverso importo, e quindi il suo autore non accusa nessuno di falsificazione.

Chiamare quelle "scritte" "pagherò" non è un anacronismo, dacché, secondo quest'articolo, i pagherò cambiari sono un'invenzione ebraica, citati nel Talmud [bBava Metzi'a, 44b] come titoli nominativi (cioè a favore di una persona determinata), e sempre dagli ebrei trasformati in titoli all'ordine (cioè trasferibili con girata) nell'Alto Medioevo, prima che anche i gentili imparassero a farne buon uso.

Ci si può chiedere se all'epoca della parabola chi aveva firmato un pagherò poteva eccepire al prenditore che l'importo del titolo era superiore all'effettivo debito, e quindi era tenuto a pagare solo quest'ultimo (nell'Italia attuale, quest'eccezione si può sollevare, ma solo contro il prenditore - se questi ha ceduto il pagherò ad una terza persona, questa ne è immune e può esigere l'intero importo del titolo).
Può sembrare un'ipotesi cervellotica, ma in realtà è molto comune: un fornitore può concedere una linea di credito al suo cliente (per esempio, di 10.000 Euro), e volere un pagherò di 10.000 Euro a garanzia del credito; può capitare che il fornitore abbia immediato bisogno di denaro e metta all'incasso quel pagherò, ma il debitore obbietta all'ufficiale giudiziario che glielo presenta: "È vero, ho firmato quel pagherò di quell'importo, ma di quei 10.000 Euro concessimi ne ho utilizzati solo 6.000, e perciò restituisco solo 6.000!"
In questo caso, non sarebbe servito a nulla né al padrone né al fattore [autorizzato a riscuoterli in quanto suo agente] avere dei pagherò con importi gonfiati: dei firmatari attenti e motivati [erano grossi importi quelli della parabola] avrebbero potuto comunque difendersi in giudizio e pagare solo il dovuto, accollando al creditore ingordo le spese.

Se così è, il fattore, ordinando ai debitori di scrivere l'importo corretto, ha semplificato la vita a tutti.

Ci si è chiesti chi rappresentano i protagonisti della parabola, dandone varie risposte; quella che viene in mente a me è che il proprietario è il Padre, ed il fattore il Figlio - il resto è teologia della Croce (forse posteriore a Gesù).

Nonché ammonimento a non cercare un messia diverso da Gesù. Ed a non iniziare gare di severità nell'osservanza religiosa (piuttosto frequenti anche tra gli ebrei di oggi - e non dimentichiamo che è altrettanto comune per gli ebrei vedere nei precetti religiosi dei debiti da adempiere verso l'Eterno o verso il prossimo) perché, in questi casi, se Gesù capisce la situazione e ti salva anche da te stesso, altri possono approfittarne per impiccarti con le tue stesse parole.

Raffaele Yona Ladu