venerdì 19 dicembre 2014

Libro dei sogni

Tre cose sarebbe interessante rivendicare in un Pride, ma i tempi non sono maturi:

1. L'abrogazione degli articoli 527 e 529 del Codice Penale, che rispettivamente puniscono e definiscono gli atti osceni in luogo pubblico. Nel migliore dei mondi possibili, uno dovrebbe vestirsi solo per autoprotezione; io mi accontento che si possa (s)vestirsi come si vuole in pubblico, senza temere altro che il caldo od il freddo.

2. La revisione del Codice Civile, in modo da consentire il matrimonio di gruppo, senza diminuire le garanzie per i coniugi più vulnerabili. Oltre alle garanzie più ovvie, ispirate al diritto delle società di persone, ed all'attuale diritto di famiglia, va introdotto l'obbligo di informare i nubendi dell'effettivo stato civile dell'altro, compreso il numero di coniugi o persone con cui ha richiesto le pubblicazioni, ed il diritto di veto per i coniugi od i nubendi all'ingresso di nuovi coniugi o nubendi nella compagine familiare - esercitato una volta per tutte (rendendo così il matrimonio monogamico) oppure di volta in volta (non è mai una buona idea introdurre in un gineceo/androceo/ecc. una persona sgradita a chi ne fa già parte).

3. Fatto questo, modificare l'articolo 556 del Codice Penale, che definisce e punisce la bigamia in modo che sia punita solo in caso di raggiro (cosa che ora è una circostanza aggravante) - intendendo per raggiro l'ingannare l'altr* non solo sul proprio stato civile, ma anche sul numero esatto di coniugi e nubendi (sposare chi ha già un coniuge od un* fidanzat* non è la stessa cosa dello sposare chi ne ha già tre).

Ovviamente, il matrimonio di gruppo dovrebbe essere egualitario (ovvero non ha importanza il genere di alcuno dei coniugi).

Pubblico queste considerazioni in un blog personale, non in quello di Lieviti, perché queste considerazioni non sono una presa di posizione dell'associazione, ma la mia lista dei desideri.

Raffaele Yona Ladu

giovedì 14 agosto 2014

La parabola del fattore infedele

La parabola di Matteo 13:44 che ho commentato qui, ad una lettura superficiale incoraggia la disonestà, e questa lettura verrebbe corroborata dal fatto che nel genere letterario della parabola non si danno giudizi morali, e da un'altra parabola con un protagonista disonesto, quella di Luca 16:1-13, che per comodità vi riporto nella versione de La Nuova Riveduta:
1 Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un fattore, il quale fu accusato davanti a lui di sperperare i suoi beni.
2 Egli lo chiamò e gli disse: "Che cos'è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché tu non puoi più essere mio fattore".
3 Il fattore disse fra sé: "Che farò, ora che il padrone mi toglie l'amministrazione? Di zappare non sono capace; di mendicare mi vergogno.
4 So quello che farò, perché qualcuno mi riceva in casa sua quando dovrò lasciare l'amministrazione".
5 Fece venire uno per uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: "Quanto devi al mio padrone?"
6 Quello rispose: "Cento bati d'olio". Egli disse: "Prendi la tua scritta, siedi, e scrivi presto: cinquanta".
7 Poi disse a un altro: "E tu, quanto devi?" Quello rispose: "Cento cori di grano". Egli disse: "Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta".
8 E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce.
9 E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne. 
10 Chi è fedele nelle cose minime, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle cose minime, è ingiusto anche nelle grandi. 
11 Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere? 
12 E, se non siete stati fedeli nei beni altrui, chi vi darà i vostri? 
13 Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona». 
I commenti del sito LaParola.Net e quello del cattolico Bruno Maggioni non hanno nessun dubbio: quel fattore è proprio un farabutto, e Gesù loda di lui soltanto la prontezza nel garantirsi un avvenire, che i suoi discepoli dovrebbero prendere ad esempio, non certo i mezzi usati.

Altre persone non sono altrettanto sicure di questo - anche senza giungere all'estremo di Giuliano l'Apostata, che secondo LaParola.Net motivò la sua apostasia proprio per la frode lodata in questa parabola, sentono che non è possibile che Gesù avesse consigliato proprio questo.

Questo impedisce di usare la parabola di Luca a sostegno dell'interpretazione pedestre di quella di Matteo: se tutti si sentono a disagio quando il Vangelo sembra consigliare la disonestà, è lecito immaginare che Gesù stesso se ne rendesse conto ed avesse usato l'apparente disonestà di codeste parabole come esca e pungolo.

Esca per attirare l'attenzione, pungolo (vedi qui) per costringere i discepoli più motivati ad indagare ed a trovare una spiegazione che eliminasse il motivo di scandalo.

Di queste spiegazioni, la più usata (per esempio, da Gianfranco Ravasi) è che il fattore, come capitava in quel tempo e luogo, era pagato a provvigione.

Perciò, quando condona in parte i debiti ai debitori del padrone (che erano certamente più di due, ma Gesù non poteva abusare della pazienza degli ascoltatori), il fattore in realtà rinuncia solo alla sua provvigione - ed il padrone non subisce danno.

Per questo il padrone lo loda sinceramente anziché lasciarsi scappare un'imprecazione che potete certo immaginare!

Non tutti apprezzano questa spiegazione, ed io ho i miei motivi per farlo. Avverto che non sono un esegeta, ma un impiegato di banca, e penso di potermi immedesimare nella situazione del fattore infedele - anche la mia banca amministra i beni altrui.

Può capitare che una persona venga licenziata non per sua colpa, ma perché troppo screditata dalle chiacchere - se non si riesce a riabilitare il suo nome, lei può essere costretta a dimettersi perché il suo disonore nuoce anche al suo datore di lavoro.

È la situazione della parabola; infatti, se veramente il padrone si è convinto che il fattore sia disonesto, perché gli chiede il rendiconto? Per dargli un'occasione in più di imbrogliarlo?

Se un impiegato di banca viene accusato di malversazione, non gli si chiede il rendiconto - gli si impedisce di rimetter piede nella "scena del delitto" per timore che inquini le prove, e si chiede al Servizio Compliance (detto un tempo Ispettorato) di verificare le sue operazioni per individuare le sue eventuali malefatte.

I mezzi sono diversi, ma penso che duemila anni fa si facesse la stessa cosa: chi temeva di essere frodato dal proprio uomo di fiducia non gli chiedeva il rendiconto, lo cacciava immediatamente e chiedeva ad una terza persona di verificare i conti.

Se il padrone non agisce così, vuol dire che è convinto che il fattore sia impopolare, non disonesto. Lui deve revocargli l'incarico perché il fattore si è fatto molti nemici, che hanno ucciso la sua reputazione, ma non gli revoca la fiducia.

Inoltre, perché i debitori vengono convocati dal fattore uscente e non da un'altra persona? Se quello uscente si fosse dimostrato davvero disonesto, avrebbe dovuto essere un'altra persona a convocarli tutti per la verifica dei conti.

Posso citare un esempio: il fornitore di un'associazione era in società con altri, e quando fu pagato non registrò il pagamento, perché volle sottrarre il denaro ai suoi soci. Fu l'avvocato di costoro a convocare il presidente dell'associazione per verificare la situazione, non il socio disonesto in cerca di un nuovo lavoro!

E perché i debitori accettano di incontrare il loro fattore, accusato di malversazione? Era rischioso per loro abboccarsi con lui, in quanto potevano essere sospettati di esserne stati complici.

La spiegazione che mi viene in mente è che loro lo hanno incontrato perché esortati dal suo padrone, che probabilmente era presente all'incontro - nel Vangelo non è scritto che lui era assente, ma che ratificò e lodò infine l'operato del fattore. Glielo hanno riferito, od ha assistito?

I commentatori citati da LaParola.Net hanno oltretutto notato una cosa ovvia, cioè che un buon amministratore non ha bisogno che siano i debitori a ricordargli quanto gli devono, ma non ne hanno tratto le conseguenze: se lui conosce la posizione di ogni debitore (se non fosse così, il padrone si sarebbe comportato diversamente), perché li convoca tutti?

Secondo me, l'idea del fattore è molto sofisticata, e molto più onesta di quello che sembra: lui ha pensato, ed il padrone ha convenuto, che le voci contro di lui sono partite da alcuni dei debitori, e volevano identificarli, dar loro una lezione, e riabilitare il calunniato fattore.

Non era difficile: loro hanno pensato che  i colpevoli, per dare credito a codeste voci, alla domanda: "Quanto devi al mio padrone?" non avrebbero risposto dicendo il vero, ma gonfiando il loro debito, per far credere che, se il padrone non aveva mai ricevuto nemmeno gli interessi sul dichiarato, era colpa della disonestà del fattore.

Ed infatti il primo dichiarerà di dovere il doppio del vero, il secondo il 25% in più; non sappiamo se anche gli altri debitori hanno esagerato, ma il mio sospetto è che, come previsto, soltanto chi ce l'aveva con il fattore ed ha fatto nascere quelle voci lo abbia fatto. Chi era contento di lui non aveva motivo di farsi del male dichiarando il falso. 

Ma il fattore rimette le cose a posto chiedendo ad ognuno solo quello che deve davvero. Si rifiuta di approfittare della situazione per punire chi lo ha accusato a torto. Lui non ha voluto comprare i favori altrui con una truffa, ma dare prova di onestà e magnanimità - che per chi cerca lavoro come "kalkal/oikonomos/amministratore" sono la migliore raccomandazione.

Il piano è riuscito alla perfezione, e per questo il padrone che stava per licenziarlo a malincuore (se poi lo ha fatto comunque, è un interessante problema teologico) lo loda di cuore per la sua avvedutezza.

Si obbietterà che il versetto 8 parla di "fattore disonesto" ed il versetto 9 di "ricchezze ingiuste". Per rispondere, devo guardare il testo greco: la locuzione "il fattore disonesto" traduce "ton oikonomon tes adikias" e la locuzione "con le ricchezze ingiuste" traduce "ek tou mamona tes adikias".

È vero che il greco del Vangelo, ed il latino della Vulgata, ricalcano la preferenza delle lingue semitiche per i complementi di specificazione in luogo degli aggettivi qualificativi - per cui è lecito tradurre "tes adikias" come "ingiusto" anziché "dell'ingiustizia" - ma credo che in questo caso non sia corretto.

"Mamona" è una parola aramaica che vuol dire "denaro, patrimonio", e corrisponde all'ebraico "mamon", col medesimo significato. Sapete come si dice "frode" nell'ebraico d'oggi? "Honaah", una parola che credo di origine aramaica.

Secondo me, l'autore originario della parabola, in lingua aramaica, si è divertito a proporre un gioco di parole tra "mamona" ed "honaah", tra "denaro" e "frode"; il traduttore in greco lo ha apprezzato, ed ha cercato di riprodurlo - ed anche un commentatore cattolico contemporaneo (di cui non ricordo ohimé il nome) se ne è reso conto.

Non sono quindi il primo ad osservare che la parola "adikia", che in greco significa "ingiustizia", non traduce in questo caso l'"ingiustizia" come categoria concettuale, ma una "frode" specifica, quella architettata nella parabola.

La "mamona" della "honaah" è quindi "il provento della frode", ed il "kalkal ha-honaah [così si direbbe in ebraico]" non è un "fattore disonesto", ma il "gestore della frode", per conto del padrone.

Il versetto 11 non è un argomento contrario, perché in esso "nelle ricchezze ingiuste" traduce "en to adiko mamona" - il testo greco qui usa un aggettivo qualificativo in luogo di un complemento di specificazione. Si sta parlando di un'altra cosa, forse tratta da un discorso di Gesù pronunciato in altra occasione (sospetto espresso da alcuni degli esegeti citati qui) in cui egli confronta le ricchezze illusorie con quelle autentiche.

Tornando alla parabola vera e propria, vi si descrive una bella trappola ed una meravigliosa punizione per chi ha calunniato il fattore; ma il "kalkal/oikonomos" sapeva che non era il caso di lucrare "il provento della frode", ma di rinunziarvi per farsi degli amici, dimostrando di avere i loro beni a cuore come i propri, per meritare di amministrarli.

Un'obiezione sollevata è che nei versetti 6 e 7 il fattore dice ai due debitori citati: "Prendi la tua scritta e scrivi ...", che corrisponde al greco: "Dexai sou to gramma kai graphon ..."; un esegeta qui citato fa di questi versetti un punto di forza, in quanto sembra che il fattore ordini ai debitori di manomettere dei pagherò cambiari.

In realtà, non è scritto nella parabola che si trattava di pagherò già compilati con un diverso importo, e quindi il suo autore non accusa nessuno di falsificazione.

Chiamare quelle "scritte" "pagherò" non è un anacronismo, dacché, secondo quest'articolo, i pagherò cambiari sono un'invenzione ebraica, citati nel Talmud [bBava Metzi'a, 44b] come titoli nominativi (cioè a favore di una persona determinata), e sempre dagli ebrei trasformati in titoli all'ordine (cioè trasferibili con girata) nell'Alto Medioevo, prima che anche i gentili imparassero a farne buon uso.

Ci si può chiedere se all'epoca della parabola chi aveva firmato un pagherò poteva eccepire al prenditore che l'importo del titolo era superiore all'effettivo debito, e quindi era tenuto a pagare solo quest'ultimo (nell'Italia attuale, quest'eccezione si può sollevare, ma solo contro il prenditore - se questi ha ceduto il pagherò ad una terza persona, questa ne è immune e può esigere l'intero importo del titolo).
Può sembrare un'ipotesi cervellotica, ma in realtà è molto comune: un fornitore può concedere una linea di credito al suo cliente (per esempio, di 10.000 Euro), e volere un pagherò di 10.000 Euro a garanzia del credito; può capitare che il fornitore abbia immediato bisogno di denaro e metta all'incasso quel pagherò, ma il debitore obbietta all'ufficiale giudiziario che glielo presenta: "È vero, ho firmato quel pagherò di quell'importo, ma di quei 10.000 Euro concessimi ne ho utilizzati solo 6.000, e perciò restituisco solo 6.000!"
In questo caso, non sarebbe servito a nulla né al padrone né al fattore [autorizzato a riscuoterli in quanto suo agente] avere dei pagherò con importi gonfiati: dei firmatari attenti e motivati [erano grossi importi quelli della parabola] avrebbero potuto comunque difendersi in giudizio e pagare solo il dovuto, accollando al creditore ingordo le spese.

Se così è, il fattore, ordinando ai debitori di scrivere l'importo corretto, ha semplificato la vita a tutti.

Ci si è chiesti chi rappresentano i protagonisti della parabola, dandone varie risposte; quella che viene in mente a me è che il proprietario è il Padre, ed il fattore il Figlio - il resto è teologia della Croce (forse posteriore a Gesù).

Nonché ammonimento a non cercare un messia diverso da Gesù. Ed a non iniziare gare di severità nell'osservanza religiosa (piuttosto frequenti anche tra gli ebrei di oggi - e non dimentichiamo che è altrettanto comune per gli ebrei vedere nei precetti religiosi dei debiti da adempiere verso l'Eterno o verso il prossimo) perché, in questi casi, se Gesù capisce la situazione e ti salva anche da te stesso, altri possono approfittarne per impiccarti con le tue stesse parole.

Raffaele Yona Ladu

lunedì 28 luglio 2014

Un'interpretazione originale di Matteo 13:44

Matteo 13:44 è il testo di una parabola assai nota, che vi riporto nella versione della Nuova Riveduta (come tutte le citazioni bibliche seguenti):
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e, per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo.
Non rubo il mestiere agli esegeti, che hanno trovato notevoli paralleli nei midrashim (nei quali viene disapprovato il comportamento del proprietario pigro che non cerca il tesoro nel suo campo, e lo vende per meno di quello che vale, proprio perché ignaro del tesoro; ringrazio il mio amico Paolo Ferrari per avermeli fatti leggere); mi permetto però di discutere con il commentatore riportato in LaParola.Net, perché secondo me non è necessario ritenere che "l'uomo" si stia comportando in modo disonesto, anzi!

In alcuni dei midrashim, tra cui uno attribuito a Shim'on Bar Yochai, l'acquirente è ignaro del tesoro esattamente come il venditore, quindi non c'è frode: è per un colpo di fortuna che la negligenza del venditore premia la diligenza dell'acquirente. Nella parabola di Gesù, ad una lettura superficiale, sembra che l'acquirente si stia comportando in modo disonesto, perché sa una cosa che il venditore ignora e ne approfitta danneggiandolo.

Però, mi pare improbabile che Gesù consigli la disonestà - e non solo perché questo contraddirebbe l'immagine che di lui danno i cristiani suoi discepoli.

Gesù era ebreo, ed una cosa che gli ebrei fanno sempre notare è che, secondo il Talmud (bShabbat 31a), la prima domanda che viene rivolta dal Tribunale celeste a chi passa a miglior vita è: "Sei stato onesto nel trattare i tuoi affari?".

Ve l'immaginate un "maestro itinerante" che raccoglie tanti discepoli come descritto dai Vangeli, proprio tra persone che la pensano così, se si permette di consigliare la disonestà?

Non è una bazzecola ciò di cui la lettura superficiale della parabola incolpa l'acquirente: dal diritto ebraico, biblico e postbiblico, è vietatissimo al compratore approfittare di quello che il venditore non sa - e viceversa. Fare una cosa del genere significa rendersi rei di hona'at mamon = frode pecuniaria.

Non è solo una questione di soldi: chi fa queste cose opprime (la traduzione "fa torto a" è un po' troppo delicata) il suo prossimo, cosa vietata da Levitico 25:14.

Inoltre, chi pensa che il compratore sia stato disonesto, dovrebbe spiegarci perché non si è portato via subito il tesoro. Perché lui si sarebbe astenuto dal compiere un furto per compiere poi una truffa - cosa non meno grave?

Dobbiamo quindi trovare una spiegazione che discolpi il compratore. La prima che viene in mente è che il "tesoro nascosto" non ha valore economico. La sua presenza non cambia né il valore né il prezzo del campo. Perciò il venditore non subisce danno economico. Niente danno, niente truffa.

Il Regno dei Cieli non ha quindi valore venale; questa è una cosa che ricaviamo anche da altri insegnamenti di Gesù, ha guidato la ricerca dei passi paralleli a questo riportati in LaParola.Net, nonché i commenti che il mio amico Paolo Ferrari mi ha fornito, ed incoraggia a proseguire per questa via interpretativa - farsi guidare dagli scrupoli di coscienza di un onesto compratore.

Però questi scrupoli vengono solo alleviati: comprare una cosa per impadronirsi di due non è onesto nemmeno se la seconda cosa non vale nulla - e su questo sono d'accordo gli ebrei, che vietano il profitto ingiusto anche se nessuno subisce danno (Talmud bBava Batra 12b - citato qui), considerando questo modo di agire degno degli abitanti di Sodoma.

Il compratore ha trovato un tesoro nascosto, lo nasconde di nuovo, ma sa che il proprietario del campo ne è al corrente - altrimenti non potrebbe acquistare il campo con la coscienza pulita.

Il tesoro non viene perciò nascosto al padrone del campo, viene nascosto agli eventuali ladri che non avrebbero scrupoli. Ed il proprietario vende il campo ed insieme con esso un tesoro che ben conosce, ma a cui nessuno dà alcun valore economico (eppure ci possono essere dei ladri a cui fa gola - per non parlare del compratore del campo!) - perciò la transazione è onesta e vantaggiosa per entrambi (il venditore ha i soldi, il compratore il tesoro).

Resta però uno scrupolino piccino picciò: che ci faceva il compratore nel campo altrui?

Una persona onesta non entra nella proprietà altrui senza autorizzazione. Che autorizzazione poteva avere?

Due me ne vengono in mente: o si trattava di un bracciante agricolo (o, più probabilmente, visto che era dovizioso, di quello che oggi si chiama un "contoterzista", cioè di un imprenditore che lavora i campi altrui), oppure di uno dei poveri a cui la Torah consentiva e consente di spigolare e raccogliere quello che viene lasciato per loro in un angolo del campo (Levitico 19:9; Levitico 23:22; Mishnah Pe'ah; ecc.).

Propongo un'interpretazione che comprende entrambi: il contoterzista ha incontrato in quel campo i poveri, e si è reso conto che loro sono il Tesoro del Regno dei Cieli, anzi, il Regno vero e proprio! Comprando il campo, compra anche la gioia di stare nel Regno.

L'interpretazione non è incompatibile con gli insegnamenti di Gesù - Luca 6:20 (che fa parte delle Beatitudini secondo Luca) esplicitamente afferma:
Egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro. (...)»
Inoltre, Luca 10:8-9, dice:
8 In qualunque città entriate, se vi ricevono, mangiate ciò che vi sarà messo davanti, 
9 guarite i malati che ci saranno e dite loro: "Il regno di Dio si è avvicinato a voi".
Luca 17:20-21 esplicita:
20 Interrogato poi dai farisei sul quando verrebbe il regno di Dio, rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà: 
21 "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi».
L'importanza dei poveri che si sfamano con l'angolo del campo viene evidenziata anche dall'inizio della Mishnah Pe'ah:
MISHNAH 1. Seguono le cose per cui non è prescritto un limite massimo: 1. l'angolo del campo; 2. l'offerta delle primizie; 3. le offerte presentate al Signore nel corso dei tre pellegrinaggi; 4. il far del bene; 5. lo studio della Torah. Seguono le cose di cui una persona lucra l'interesse in questo mondo, ma il capitale le rimane nel mondo che verrà: onorare il padre e la madre, praticare la carità, e mettere pace tra un uomo ed il suo amico; ma lo studio della Torah vale per tutte quante.
Questa Mishnah, in cui si comincia con il parlar di campi (tra parentesi, secondo i rabbini, l'"angolo del campo" da riservare ai poveri deve essere almeno 1/60 [1,667%] della superficie del campo; poiché però non c'è limite massimo, uno può ingrandirlo quanto vuole), e si prosegue con il tesoro che si può cumulare nel mondo che verrà, è ritenuta fondamentale dagli ebrei, che la recitano durante la preghiera del mattino - così come la parabola del tesoro del regno è fondamentale per i cristiani.

Ma il brano evangelico chiave per interpretare questa parabola è Matteo 5:1-12, ovvero le Beatitudini secondo Matteo (devo ancora ringraziare Paolo Ferrari per aver fatto partecipare me e mia moglie ad un gruppo di studio sulle beatitudini evangeliche):
  1. Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui,
  2. ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo:
  3. «Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli.
  4. Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati.
  5. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra.
  6. Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati.
  7. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta.
  8. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
  9. Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
  10. Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli.
  11. Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia.
  12. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi.
Quali sono le persone di cui si dice qui che il Regno dei Cieli è loro?
  1. I poveri in spirito (v.3);
  2. I perseguitati per motivo di giustizia (v. 10).
In questa parabola del tesoro del campo, sono le stesse persone. Perché infatti dei poveri dovrebbero "nascondersi"? E perché chi li scopre dovrebbe avere la cautela di "nasconderli" nuovamente? Infatti, spigolando e cogliendo le spighe dall'angolo loro riservato, loro esercitano un diritto - possono farlo a testa alta.

C'è un mucchio di barzellette ebraiche che mettono in ridicolo la sfrontatezza (chutzpah) dei mendicanti (schnorrer), che si comportano come se l'elemosina fosse il loro "salario di cittadinanza" - e guai a chi gliela nega! Inoltre, Gesù avverte di non nascondere una lampada (Matteo 5:15, Marco 4:21, Luca 8:16, Luca 11:33), ma di metterla dove illumina ovunque.

Ma se i "poveri in spirito" sono anche "perseguitati per motivo di giustizia", è più che ragionevole che si nascondano, anzi, si "velino" cercando di passare da poveri qualunque, per paura di essere "portati via" dai "ladri", termine il cui significato neotestamentario è ben esplicitato da Matteo 21:13, Marco 11:17Luca 19:46 (se tutti i tre Sinottici citano il medesimo logion = detto, pur con qualche variante, lo si considera autentico).

Anche i discepoli di Gesù spigolano (Marco 2:23-28 si premura di informarci che lo fecero pure di Sabato), dacché sono poveri; e se sono perseguitati, nascondersi è per loro molto opportuno (va ricordato che Eusebio di Cesarea ci informa come i cristiani sfuggirono alla Grande Rivolta del 66-73 DC rifugiandosi nella Decapoli, e così salvarono la Chiesa - se i cristiani di allora avessero bramato il martirio anziché scansarlo, il cristianesimo non ci sarebbe più).

Se la mia ipotesi è corretta, il compratore del campo ha riconosciuto nei poveri che lo frequentano i discepoli di Gesù, il Tesoro del Regno - anzi, il Regno; questo lo ha rallegrato, ed ha deciso di aiutarli. Non li ha denunciati né alle autorità civili, né a quelle religiose, né al proprietario del campo (tutti convinti che essi siano dei poveri qualsiasi), ma ha comprato il campo per dar loro asilo perenne e sicuro, e stare con loro.

La parabola sarebbe quindi una ricetta per i tempi di persecuzione, anche se il suo valore va ben oltre la circostanza.

Bisogna però chiedersi se sia davvero di Gesù: il criterio più semplice (un detto riportato più volte nei Vangeli lo si considera autentico) non depone a suo favore, e l'interpretazione che propongo (i discepoli che si "velano") va contro l'esortazione (quella sì riportata più volte) di Gesù ad essere illuminanti e visibili; inoltre, la circostanza che congetturo (una persecuzione su larga scala) sembra posteriore alla morte di Gesù.

Inoltre, come faceva notare Conzelmann riprendendo Bultmann (Conzelmann lo sto studiando per l'esame di Introduzione al Nuovo Testamento della Facoltà Valdese di Teologia), Gesù raccontava parabole, ma i redattori dei Vangeli hanno aggiunto ad esse delle allegorie.

La differenza principale tra la parabola e l'allegoria è che la parabola non ha bisogno di speciale interpretazione: la situazione che descrive è verosimile, ed il paragone che propone è chiaro; l'allegoria invece descrive una situazione poco verosimile che costringe a chiedersi quale messaggio cifrato nasconda.

Il mio sforzo è stato dimostrare che quella che sembra una parabola è in realtà un'allegoria: quella che sembra una semplice marachella al lettore/ascoltatore che non ha mai comprato nulla di più costoso di un paio di scarpe è una cosa che nessun acquirente di immobili tenterebbe mai.

E le allegorie, specialmente se alludono a situazioni tipiche della chiesa primitiva anziché personali di Gesù, sono la specialità dei redattori.

Si tratta però di un'allegoria assai ben congegnata, visto che la coerenza dell'interpretazione che propongo (i poveri discepoli di Gesù sono il tesoro nascosto nell'angolo del campo in cui si sfamano, e quel tesoro è il Regno dei Cieli) con il nocciolo del messaggio di Gesù dato dalle Beatitudini è notevolissima.

Raffaele Yona Ladu

sabato 15 marzo 2014

Tra limmud e studium

Ho cominciato (era ora!) a leggermi i Quaderni del Carcere di Gramsci, in cui (Q. 1, $ <92>, p67) si riporta un articolo di Eugenio Giovannetti, in cui è scritto che in latino "studium" significa propriamente "punta viva".

Se questo è vero (non posso controllare), "studium" traduce perfettamente l'ebraico "limmud", letteralmente "pungolo".

mercoledì 5 marzo 2014

Il limite dell'identità ebraica

[1] Italy’s Only Female Rabbi Digs Up the Country’s Hidden Jewish Roots

[2] The Torah’s Instructions to Non-Jews—The Laws of Bnei Noach

L'articolo [1] è molto interessante, ma ci sono due cose da dire: la prima è che mi tocca concordare con chi ha osservato che, sebbene non manchino certo nell'Italia meridionale discendenti degli "anusim" (= "costretti", ovvero ebrei che si convertirono [falsamente] al cristianesimo cattolico per non patire l'esilio), stimare che siano fino al 50% della popolazione dell'Italia meridionale non ha molto senso.

La seconda è l'osservazione che rav Barbara Aiello perse il posto in Italia per aver celebrato dei matrimoni interreligiosi, ad onta del divieto impostole dalla congregazione che l'aveva assunta, divieto che le congregazioni ebraiche riformate americane si guardano bene dall'imporre.

Ci ho pensato un pochino e mi sono detto che qui non siamo semplicemente di fronte al divieto della Torah, riaffermato da Esdra e Neemia, per un* ebre* di sposare un* non ebre*: ci sono molte coppie miste in tutto il mondo, e, sebbene questa non sia considerata la situazione ideale (molti, anche tra i riformati, ritengono che chi ha sposato un* non ebre* non può fare il/la rabbin*, e le comunità ortodosse escludono dagli incarichi di vertice chi si trova in questa situazione), non perché nasce una coppia mista un* rabbin* perde il posto. 

Celebrare un matrimonio (od un rito) interreligioso significa che tutte le comunità coinvolte si riconoscono a vicenda e riconoscono le rispettive fedi come mezzi acconci ("upaya", per usare la terminologia buddhista) per entrare in rapporto con il divino (comunque definito) - un riconoscimento che chi ha licenziato Barbara Aiello non voleva concedere.

[2] fa pensare che in questo ci siano ragioni dottrinali molto più profonde del risentimento per l'antisemitismo cattolico (per nulla scomparso, purtroppo), ma mi pare comunque un errore molto grave.

Raffaele Ladu