http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3867580,00.html
La religione ebraica impone di tenere tutto ciò che è lievitato (chametz) alla larga dai propri beni a partire dalla vigilia di pasqua per tutti gli otto giorni seguenti.
Un detenuto israeliano di religione mussulmana ha chiesto alla Corte Suprema se si poteva fare eccezione per lui, e la risposta è stata che l'unica cosa che gli si poteva concedere era di tenere del pane lievitato nel suo armadietto e di mangiarlo con dignità (e discrezione) per non offendere i suoi compagni di cella ebrei.
La sentenza non mi piace per nulla, in quanto si può interpretare in questo modo: ogni anno l'ebreo che purifica la propria casa, la propria auto, la propria barca, il proprio ufficio, eccetera, dal chametz implicitamente dichiara il luogo reso kasher le-pesach (adatto alla pasqua) un luogo ebraico.
Infatti, la scappatoia a cui ricorre ogni anno chi non vuole o non può eseguire questa purificazione è quella di "vendere" il luogo che non verrà purificato ad un non-ebreo, in modo da sottrarlo a quest'obbligo religioso (la vendita non ha effetto per il diritto civile, e terminata la festività il bene torna anche dal punto di vista religioso di proprietà di chi lo ha venduto).
Il ragionamento della Corte Suprema israeliana è stato che il detenuto mussulmano che chiede di avere del chametz in cella durante la pasqua contesta implicitamente l'ebraicità del luogo di detenzione; e la risposta, che gli consentiva al massimo di tenere del pane nell'armadietto e di consumarlo con dignità e discrezione, indicava che in Israele soltanto lo spazio privato di una persona (il suo armadietto) ed i suoi momenti privati (il mangiare da solo) possono non essere ebraici - in quanto la regola è che in Israele gli spazi pubblici sono invece ebraici.
I compagni di cella ebrei non si sarebbero certo offesi vedendolo comportarsi da mussulmano; si sarebbero offesi perché lui, mangiando chametz, avrebbe "de-ebraizzato" uno spazio pubblico ebraico.
La sentenza non è stata unanime - il giudice Eliezer Rivlin ha espresso un'opinione di minoranza secondo cui la libertà di culto garantita dalle leggi israeliane imponeva di acconsentire alla richiesta del detenuto.
Si può confrontare questa sentenza con l'uso italiano di appendere un crocefisso negli edifici pubblici. Il crocefisso appeso ad una parete indica che il luogo è cristiano; nulla da eccepire se la parete è di un edificio privato, ma in un edificio pubblico significa affermare che quello spazio pubblico è cristiano, distinguendo inevitabilmente chi di quello spazio è condomino (i cristiani) e chi ne è semplicemente ospite (i non cristiani).
Se la legge impone che tutti gli edifici pubblici siano dotati di un crocefisso, questo significa proclamare che tutti gli spazi pubblici sono cristiani, e che non cristiani possono essere solo degli spazi privati.
La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha sancito che i crocefissi vanno rimossi, è stata ricevuta male in Italia proprio perché imponeva di "scristianizzare" gli spazi pubblici, cosa che a molte persone risultava inaccettabile, anche se tra loro molti non pregano e si comportano in modo meno cristiano di chi fa l'amore senza essere sposato (non sono un vescovo ed il mio parere perciò non conta, ma mi pare ben più grave affamare i bambini).
Ma voler mantenere la cristianità o l'ebraicità degli spazi pubblici significa imporre allo stato di discriminare le religioni e le persone a seconda della loro appartenenza religiosa. Lo stato italiano dovrebbe togliere i crocefissi dagli edifici pubblici, e quello israeliano rinunziare ad imporre la kashrut negli edifici medesimi.
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