lunedì 26 aprile 2010

Le Ninfe di Roberto Calasso

Ho comprato il libro Roberto CalassoLa follia che viene dalle NinfeAdelphi perché mi interessavano i primi due saggi, dedicati il primo alle Ninfe nella mitologia greca, ed il secondo a come Vladimir Vladimirovič Nabokov fece di Lolita un perfetto esempio del genere.

Va detto che il primo saggio, che dà il titolo al libro, è piuttosto complicato, e per capirlo occorre "decostruirlo"; in esso Calasso non riassume i miti sulle Ninfe (quali si trovano ad esempio nel libro di Károly Kerényi Gli dèi e gli eroi della Grecia, ilSaggiatore), ma in nome della civiltà occidentale sembra voler riparare un torto storico nei loro confronti.

Si può leggere qui l'inizio del saggio, nell'archivio storico del Corriere della Sera, che mostra come il testo più antico in cui l'Europa designi una regione geografica (allora limitata alla Grecia centro-settentrionale) racconti il modo in cui Apollo fondò il santuario di Delfi sulle pendici del Parnaso.

Non è un caso, osserva Calasso, che Apollo si sia dovuto scontrare con le Ninfe: lui è il dio della razionalità, ma non è capace di produrre nuove conoscenze da solo: può solo usurpare le conoscenze altrui, e sono le Ninfe ad avere ciò che lui brama.

Avendo Apollo depredato le Ninfe del loro sapere e perfino dei loro luoghi di culto, senza nemmeno ringraziarle, così la civiltà occidentale, osserva Calasso, ha sempre attribuito la propria origine e la propria identità a lui anziché alle sue vere autrici.

Alla ricerca di eventi storici e luoghi letterari in cui il contributo delle Ninfe c'è stato, ma è stato misconosciuto, Calasso ricorda la battaglia di Platea del 479 AC, in cui i greci sconfissero definitivamente i persiani e scongiurarono il rischio che l'Europa divenisse un'appendice dell'Asia; secondo Plutarco, l'oracolo di Delfi aveva consigliato di rendere inoltre omaggio alle Nymphae Sphragidites, "sigillate", detentrici di segreti esoterici.

Le Ninfe non erano soltanto divinità delle sorgenti o degli alberi (come spiega Kerényi), secondo Calasso, ma esse sovraintendevano ad una forma particolare di conoscenza - la conoscenza per possessione, in cui il conosciuto sembra impadronirsi della mente che lo deve conoscere, e che costituisce "la follia che viene dalle Ninfe" che dà il titolo al saggio.

Calasso ha purtroppo il dono di complicare le cose, anche quando dice che autori come Platone e Giamblico avevano dato un'ottima descrizione di questa possessione. Per venire a capo della sua descrizione devo partire da una sua citazione dell'autore rinascimentale Patrizi:
Cognoscere est coire cum suo cognobili = Conoscere è far l'amore con il proprio conoscibile (p. 29).
Patrizi, non più pagano, probabilmente si era lasciato influenzare dall'uso ebraico (biblico, postbiblico e contemporaneo) per cui il verbo ידע [yada'] significa sia "conoscere intellettualmente" che "conoscere carnalmente". Ma se Calasso dice che cognoscere = coire vale anche nel mondo delle Ninfe, e non solo nel mondo semitico, gli devo credere.

La conoscenza per possessione assomiglia molto all'innamoramento - e l'innamoramento sarebbe la forma più alta di possessione. Come per innamorarsi occorre essere internamente disponibili, così la possessione è possibile se si lascia il proprio campo psichico aperto all'incursione di quelli che gli antichi chiamavano dei, ed uno psicoanalista della scuola di Hillman archetipi.

La possessione si esprime attraverso le emozioni che provoca, e Calasso avverte sia che è una "conoscenza metamorfica", sia che non dà risultati utilizzabili come quelli di un algoritmo. Credo che si possano chiarire le sue parole ricorrendo alla distinzione tra memoria dichiarativa ("Garibaldi è nato nel 1807") e memoria procedurale (quella che ci fa nuotare, pedalare, digitare con 10 dita, eccetera, senza bisogno di ripetersi ogni volta le istruzioni).

Ovvero, la conoscenza per possessione non riempie di contenuti la memoria dichiarativa, ma altera la memoria procedurale. Sono le cose che accadono in un trauma, oppure durante l'innamoramento: la prova dell'innamoramento è sentirsi diversi, e le Ninfe che possiedono il soggetto ne mutano durevolmente il comportamento.

E' un peccato che Calasso non abbia affrontato l'interessante fenomeno dei sogni che risolvono i problemi, affine a quello dei "sogni rivelatori" dell'oracolo di Delfi, per valutare se anch'esso si può far ricondurre alle Ninfe. Ho letto infatti di almeno tre scienziati (il chimico Kekulé ed i matematici Hermite ed Hadamard) che hanno risolto dei problemi scientifici nel sonno, ed io una volta mi sono svegliato la mattina con quella che per me era un'illuminazione, ovvero che gli archetipi junghiani sono in realtà modelli di relazioni oggettuali.

In ogni caso, Calasso osserva che tale conoscenza ha una notevole importanza, anche se difficile da esplicitare per noi moderni, nelle opere di Aristotele (Etica Eudemia) e Platone (Fedro) - ed Aristotele e Platone sono alle fondamenta della filosofia occidentale.

Anche senza riuscire a cogliere tutti i dettagli del saggio di Calasso, risulta evidente l'intento dell'autore: dimostrare come le basi della civiltà "classica" siano state date dalle Ninfe e non dalle divinità olimpiche maschili (segnatamente, Apollo e Dioniso) che hanno usurpato i loro meriti.

Direi che è il modo di Calasso di fare un'interessante "mitologia femminista"; altri autori hanno invece osservato che la mitologia greca nacque quando gli invasori achei, che avevano una religione abbastanza povera, assimilarono i miti minoici e preellenici fraintendendone però il significato originale e sovrapponendovi un'interpretazione patriarcale.

Il saggio termina citando Aby Warburg, un critico d'arte che nel 1890 fece una curiosa scoperta. La critica d'arte dell'epoca era ancora debitrice al Winckelmann, che individuava i caratteri del riapparire dell'antichità nelle opere del tardo Quattrocento nella "nobile quiete" e nella "semplice grandezza"; ma
Warburg avvertì la presenza dell'antichità pagana nell'improvviso intensificarsi del gesto in una figura femminile - e soprattutto, come se il gesto in sé fosse qualcosa di troppo brusco e avesse bisogno di defluire attorno, nell'improvviso movimento del drappeggio e dei capelli di quella figura, scompigliati da un soffio. Questo Warburg riconobbe in Botticelli. Era il «gesto vivo» dell'antichità che riappariva. (pp. 37-38)
Il gesto così tracciato viene riconosciuto da Warburg e Calasso come il riapparire delle Ninfe, che sono alla base dell'antichità artistica che riappare nel Rinascimento più ancora dei criteri formali.

L'interessante racconto di Calasso della vita di Warburg e delle altre sue scoperte artistiche pertinenti continua, ma il senso è già chiaro: non ci si può rifare all'antichità classica in modo credibile se non si è disposti a conoscere le Ninfe, o meglio, a lasciarsene possedere.

Questa sembra (deduco io) la principale differenza tra il Rinascimento ed il Neoclassicismo: la maggiore perizia tecnica e sofisticazione culturale del secondo non poterono compensare la chiusura ermetica verso le Ninfe, che non diedero alle opere neoclassiche la stessa vivacità di quelle rinascimentali.

Finisce qui il riassunto del primo saggio di Calasso, ed il secondo si può riassumere così: Nabokov era un uomo molto colto ed un grande scrittore, e nel caratterizzare il personaggio di Lolita ha davvero creato una Ninfa greca.

Io vorrei permettermi un paio di osservazioni. Cominciamo con il giustapporre questo brano di Károly Kerényi:
Qualche cosa di simile si diceva già nel racconto che parlava di Afrodite e di Anchise, secondo il quale la grande dea affidava il suo figlio mortale alle Ninfe del monte Ida, dee dal seno profondo; poiché, più spesso che madri, le Ninfe erano nutrici di dei e di eroi, sostitute e copie della madre. (p.154)
 a questo di Roberto Calasso:
Quanto alla divinazione, nell'Inno a Hermes si accenna a certi esseri femminili che furono per lui «maestre»: tre fanciulle alate, sorelle venerabili, dalla testa cosparsa di bianca farina, che svolazzano sul Parnaso nutrendosi di miele. Sono chiamate Thriai e molti tratti cin induconoa identificarle con le tre Ninfe dell'Antro Coricio, sull'alto Parnaso. Le Thriai dicono il vero se hanno potuto mangiare miele, ma mentono e turbinano nell'aria se ne sono prive. (...) Verso Telfusa come verso le Thriai, Apollo seguì lo stesso impulso: deprezzare, umiliare esseri femminili portatori di un sapere a lui precedente. Così gli rimase accanto un vuoto. E si può ipotizzare che il luogo lasciato libero dalle Thriai dovesse essere, un giorno, occupato dalle Muse. Di fatto, quando abitavano ancora l'Elicona, le Muse erano appunto tre. E, quando parlano a Esiodo, all'inizio della Teogonia, si dichiarano enunciatrici sia della verità sia della menzogna, esattamente come le Thriai. Ma tacendo su un dettaglio, si può supporre per ingiunzione di Apollo: il miele. Eppure, secondo Filostrato, quando gli Ateniesi mossero per fondare colonie in Ionia, le Muse guidarono la flotta sotto forma di api. E la Pizia veniva chiamata «l'ape delfica». Ma Apollo è tenuto a cancellare ogni ricordo del miele, così come volle sostituire il secondo tempio di Delfi, costruito dalle api stesse in cera e piume, con un tempio di bronzo. Ora avrebbe potuto rivendicare a sé solo di conoscere il pensiero di Zeus. Questa fu la prima e la più pura menzogna di Apollo. (pp. 14-15)
Calasso nel suo saggio si lamenta che dichiarare le Ninfe dee della fertilità è assolutamente riduttivo - se non altro perché tutte le divinità greche sono connesse alla fertilità. Io osservo che ambo i brani connettono le Ninfe a due squisiti cibi, il latte ed al miele, in quanto lo producono e lo consumano.

Una delle funzioni delle Ninfe sembra essere quella di nutrire, non solo il corpo (con il latte) bensì anche la mente (con il miele). Ed il miele non serve solo agli umani: il dettaglio sulle Thriai, che dicono la verità solo quando sono sazie di miele, sembra un delicato apologo sulla scienza moderna, che ha bisogno di informazioni  per emettere previsioni.

Mi viene a questo punto in mente il libro di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli. Il corpo che viene ossessivamente proposto dalla TV imita quello delle "dee dal seno profondo" di Kerényi, che però sono solo una parte dell'archetipo della Ninfa.

L'archetipo è vissuto integralmente dalle ragazze che senza riserve fanno uso della loro seduttività e del loro fascino, ma che leggono di più dei loro coetanei maschi e prendono voti migliori dei loro - per restare nella metafora, fanno un miele eccellente di cui i maschietti viziati dalla TV non sanno che farsene.

Potrei dire che l'unico errore di Nabokov nel caratterizzare Lolita è stato l'aver scritto:
Io, che l'avevo persuasa a fare una quantità di cose - la loro lista lascerebbe a bocca aperta un pedagogo di professione -, non riuscii mai, né con le preghiere né con le minacce, a farle leggere altro che i fumetti o i racconti sulle riviste per il gentil sesso americano. Qualsiasi lettura appena un gradino più su le puzzava di scuola, e anche se in teoria sarebbe stata disposta a leggere La fanciulla della steppa o Le mille e una notte o Piccole donne, non avrebbe certo sprecato le sue «vacanze» con letture così intellettuali. (p. 218)
Abbia pietà di me Nabokov, ma una ragazza dell'età di Lolita che odiasse la lettura non sono mai riuscito a trovarla. Potrei aggiungere che l'unica ninfa che conosco di persona di professione fa la libraia - esattamente il lavoro dell'ape operaia: raccoglie il nettare della cultura (libri od eventi) e lo concentra in quella specie di alveare che è il suo negozio.

A tentare un'interpretazione archetipica (ovvero secondo i canoni di una corrente della psicoanalisi junghiana, per cui i miti greci corrispondono agli archetipi dell'inconscio collettivo) del lavoro della Zanardo, il problema della TV è doppio.

Il primo è che vuole imporre un archetipo (quello della Ninfa) che non si addice a tutte le donne, e non certo per tutta la vita. L'entomologo dilettante Vladimir Nabokov sapeva che la ninfa è la penultima delle età di una farfalla (l'ultima è chiamata immagine), e perciò Humbert Humbert era certo che Lolita non sarebbe rimasta ninfa per sempre.

Quando la Zanardo lamenta che le donne che cercano di prolungare il loro "ninfaggio" ricorrendo alla chirurgia plastica si trovano poi incapaci di esprimere col volto le emozioni di una donna matura (come il lutto), spiega a livello medico e naturalistico quello che è vero anche a livello psicologico ed archetipico: esiste il momento in cui la Ninfa viene sostituita da Hera, oppure Artemide, od Afrodite, od un'altra divinità femminile; volerlo ritardare non fa un favore a nessuno.

Il secondo problema è che le Ninfe così proposte sono le Ninfe che sono state sconfitte da Apollo, che non sanno fare il miele, come invece quelle che non sono state sue vittime. L'Apollo di cui volentieri sparla Roberto Calasso somiglia tremendamente a Silvio Berlusconi, menzogne comprese, e non è di un neo-apollinesimo che abbiamo bisogno.

Mi permetto di aggiungere un'osservazione temeraria (ma vedo che Calasso, per far luce sul mito di Pitone, non ha esitato ad osservare che in ebraico עין ['ayin] significa sia "occhio" che "sorgente", e questo mi incoraggia): per la religione ebraica, se le api producessero latte, esso non sarebbe kasher (perché è lecito bere solo il latte di animali la cui carne è kasher, cioè ritualmente atta al consumo, e la carne delle api non lo è), mentre è kasher il miele d'api.

La giustificazione ufficiale è che il latte viene secreto dalle ghiandole mammarie dell'animale, e non può che ereditarne lo status ai fini della kashrut, mentre il nettare viene solo accumulato nella borsa melaria, decomposto chimicamente dagli enzimi della saliva, e poi rigurgitato.

Perciò mantiene la kashrut del nettare originale, e l'ape viene considerata semplicemente il raccoglitore ed il catalizzatore del nettare, senza influenza sulla sua composizione. Controprova è la pappa reale: essendo secreta dalle ghiandole ipofaringale e mandibolare dell'ape operaia, non è kasher.

Questo significa che, mentre un ebreo dovrebbe essere scrupolosamente attento al latte che beve (in realtà un latte non kasher viola anche le norme sanitarie italiane, quindi è improbabile che un ebreo osservante lo compri per sbaglio), egli può mangiare qualsiasi miele in tutta tranquillità (tantopiù che la legge italiana vieta assolutamente gli additivi, che potrebbero essere non kasher).

La parte del Libro dell'Esodo che spiega come la figlia del Faraone, dopo aver trovato Mosè tra i giunchi, cerchi una balia, e quella che trova è in realtà sua madre, viene spiegata dall'esegesi rabbinica come un evento provvidenziale che fece sì che il più grande degli ebrei della storia fosse alimentato con latte rigorosamente kasher, ovvero conservasse così la sua identità di ebreo.

E la legge ebraica vieta di dare i bambini ebrei a balie non ebree - va tenuto presente, prima di giudicare troppo male questa norma, che spesso le balie non ebree tentavano di battezzare i figli o comunque di allontanarli dall'ebraismo. Il caso Mortara nacque dall'eccesso di zelo di una balia non ebrea.

Se con il latte si trasmettono i valori e le vocazioni (vi ricordate di Michelangelo che scherza sulla sua balia, figlia di uno scultore, dicendo che il suo personale talento lo aveva succhiato insieme con il suo latte? Quella è stata la sua ninfa), con il miele si assimilano la scienza e la cultura.

E le norme sulla kashrut, il cui scopo è prevenire l'assimilazione, dicono che essa non passa per questa via: lettere, scienze, arti, tecniche giovano all'uomo e non lo traviano. Molti ebrei ed ebree hanno potuto essere intellettualmente eccellenti perché non vedevano nella cultura un pericolo.

I ministri dell'agricoltura che non sanno distinguere invece il latte dal miele fanno una politica identitaria assurda. Dal mio punto di vista "latte" è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo; tutto il resto è "miele". E chi ama un tipo di miele non considera una minaccia chi ne ama un altro.

E chi ama davvero le Ninfe, apprezza anche e soprattutto il loro miele.

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