giovedì 8 ottobre 2009

Colombo Valentina, da arabista ad intollerante

Ho letto il libro di Valentina Colombo "Islam. Istruzioni per l'uso" (Oscar Mondadori 2009), e mi ha infastidito parecchio.

Lei riporta molti fatti allarmanti da prendere sul serio, ma sembra che per lei l'unica difesa contro l'estremismo religioso islamico sia sospendere il principio di eguaglianza garantito dalla nostra Costituzione, ovvero vietare ai mussulmani quello che è lecito agli altri.

Primo esempio è il jihad: normalmente si argomenta che la parola significa semplicemente sforzo (sulla via di Dio), e che il jihad nel senso di conquista militare di nuovi territori all'Islam va compiuto solo dopo aver completamente islamizzato (nell'ordine) il proprio comportamento, il proprio paese, i paesi già islamici.

Valentina Colombo argomenta che quest'interpretazione va bene tuttalpiù per i sufi, non certo per gli estremisti mussulmani (che lei ritiene maggioritari nelle organizzazioni islamiche europee); non posso contraddire chi ha tradotto diversi romanzi di Nagib Mahfuz, però devo per forza notare che, come esempio di suprema aggressività, lei non riesce a trovare di meglio che questa citazione di Hamza Roberto Piccardo (pagina 192 del libro di Valentina Colombo):

Quando la Comunità dei musulmani è aggredita, minacciata, oppressa o perseguitata, i credenti hanno il dovere di combattere esercitando il loro diritto-dovere alla legittima difesa.

A parte il fatto che non si capisce come si possa chiedere ad una comunità umana di lasciarsi schiacciare senza opporre resistenza (perfino l'assolutista Hobbes riconosceva all'individuo il diritto di resistere all'autorità dello stato che lo avesse voluto sopprimere), questa citazione di Piccardo mi ha ricordato il lato oscuro di un pensatore liberale, tale John Rawls, benedetta sia la sua memoria.

Nelle pagine 131-140 dell'edizione italiana della sua opera I diritti dei popoli (Edizioni di Comunità) egli discute dell'Eccezione dell'Emergenza Suprema, ovvero quando il pericolo per la libertà di un popolo sia tanto grave da consentire di colpire anche i civili della nazione nemica, e con armi di distruzione di massa altrimenti vietate.

Non posso riportare l'intera argomentazione, ma cito soltanto questo paragrafo:

Sono le circostanze a determinare quando vale l'eccezione dell'emergenza suprema, e il giudizio al riguardo sarà a volte differente. Il bombardamento della Germania da parte dell'aviazione britannica per tutto il 1941 o il 1942 poteva essere giustificato perché non si poteva permettere alla Germania di vincere la guerra, e questo per due ragioni fondamentali. Primo, il nazismo faceva presagire un male politico e morale di portata incalcolabile per la vita civile in qualsiasi parte del mondo. Secondo, la natura e la storia della democrazia costituzionale e il suo ruolo nella storia europea erano in pericolo.

Credo che sia praticamente impossibile trovare un jihadista capace di argomentazioni più feroci di quelle di Rawls - e sebbene io apprezzi il pensiero di questi, devo per forza respingere queste argomentazioni, che vengano da lui oppure da uno jihadista.

Sono molto contento che un altro gran liberale come Michael Walzer affermi che l'Emergenza Suprema non si verifica praticamente mai, e che gli stessi eventi che Rawls aveva classificato come emergenze supreme non lo erano - svuotando così di significato questa dottrina; ciononostante, devo ammettere che l'essere liberali non impedisce di dire bestialità, ed insospettirmi di chi contrappone l'estremismo islamico ai timidi tentativi di far nascere un liberalismo islamico - ma senza rendersi conto che non è solo l'islam ad avere scheletri di tirannosauro nel suo armadio, e che anche i pensatori liberali hanno delle gran bonifiche da fare in casa loro.

Mi si dirà: "Rawls parla di difesa, i jihadisti di offesa". A parte il fatto che ci sono dei jihadisti che presentano la loro lotta come guerra difensiva, l'arte della guerra si basa sull'inganno, ed anche Hitler, per giustificare l'invasione della Polonia nel 1939, incaricò dei soldati tedeschi con uniformi polacche di inscenare un incidente di frontiera che desse il pretesto per la "risposta".

Non c'è alcuna garanzia che una dottrina bellica elaborata per la difesa non venga poi convertita in dottrina offensiva - ed anche i piani del Patto di Varsavia partivano sempre dal presupposto che l'attacco fosse provenuto dalla NATO, sebbene i loro scopi non fossero la difesa dei loro paesi, ma l'occupazione del mondo libero.

Per questo bisogna disapprovare sia Rawls che i jihadisti che predicano una guerra senza esclusione di colpi (il Corano pone dei limiti alla condotta bellica, ma non sono stati sempre rispettati): potrebbero cercare di convincere il pubblico che combatte e paga le tasse che l'unico modo per salvarsi da un mortale pericolo sia il rinunziare ad ogni scrupolo umano, e soltanto se si dice loro di no, che anche il nemico ha la sua dignità umana, la guerra che si combatte ha un senso.

Altro esempio è quando lei riferisce che l'Arabia Saudita, che ogni anno ospita circa due milioni di pellegrini per lo Hajj (il pellegrinaggio alla Mecca), ha installato ai valichi di frontiera dei sensori che leggono l'iride di chi entra, per garantirsi che in mezzo ai pellegrini non ci siano terroristi.

Nessuno avrebbe il coraggio di discutere la scelta dell'Arabia Saudita, ma Valentina Colombo ha voluto strafare dicendo che la decisione dell'Arabia Saudita dimostra che fare una cosa del genere in Italia non sarebbe segno né di islamofobia né di razzismo.

Il problema, se Valentina Colombo non lo ha capito, è che sarebbe inutile usare gli scanner dell'iride se si fotografassero solo gli occhi di chi si dichiara mussulmano. Quindi non si può nemmeno pensare di fare un immondo racial profiling - bisogna fotografare tutti i viaggiatori.

Inoltre, lo scanner dell'iride ha il notevole vantaggio (agli occhi dei fautori del velo) di non imporre al soggetto di togliersi il niqab - e penso che questo sia stato uno dei principali motivi che hanno convinto il governo saudita ad adottarlo. Questo scanner non è certo un colpo mortale all'estremismo maschilista :-)

Io non avrei niente in contrario a farmi fotografare i miei begli occhi, ma esistono problemi di privacy e di fondi da stanziare per le apparecchiature e la gestione dei dati - prima di dire sì vorrei essere sicuro che siano soldi spesi bene e quei dati siano gestiti correttamente.

Tornando alle violazioni del principio di eguaglianza propugnate da Valentina Colombo, vorrei attirare l'attenzione sulla lamentela che riporta di un intellettuale egiziano copto che si lagna che lui paga le tasse come tutti, ma che il Ministero degli Affari Religiosi egiziano paga solo le spese per il culto islamico - e che i copti in Egitto sono fortemente discriminati, cosa resa più facile dal fatto che sulle carte d'identità egizie è riportata la religione.

L'egiziano citato ha pienamente ragione, e Valentina Colombo fa bene a riferircelo, ma non si capisce come mai quello che è giusto motivo di biasimo quando si tratta dell'Egitto viene da lei passato sotto silenzio quando si tratta di Israele, che (come ammette il suo stesso governo) pratica in forma attenuata le medesime discriminazioni.

Inoltre, anche in Israele le carte d'identità riportano la religione - non in chiaro, ma in codice: se il titolare è ebreo, la data di nascita è riportata secondo il calendario ebraico; se non è ebreo, secondo il calendario gregoriano. Se non è zuppa, è pan bagnato!

Mi si può rispondere che lei sta parlando dell'islam e non di Israele, ma nel libro continua a battere sul chiodo dell'antisionismo presente nel mondo islamico, come se fosse frutto esclusivo della malvagità dei mussulmani, e non ci fosse nessun motivo obbiettivo per lamentarsi della condotta di Israele.

Preciso che non ritengo i mali di Israele motivo per invocarne la fine - ma mi sono convinto che lei abbia prima deciso di mettere l'islam sul banco degli imputati, e poi abbia scelto i principi in base ai quali processarlo, senza badare a quali altri possibili imputati avrebbero dovuto essere chiamati a correo.

Inoltre, non sono solo i contribuenti egiziani ed israeliani ad aver motivo di lamentarsi che il loro denaro va a finanziare comunità religiose a cui non aderiscono. Anche il contribuente italiano può lamentarsene con ottime ragioni - ma di questa palese violazione della separazione della religione dallo stato, e della libertà religiosa, che vuole che lo stato non favorisca una religione rispetto alle altre, non troverete parola nel libro di Valentina Colombo. Lei non combatte per la libertà.

Valentina Colombo parla anche del matrimonio islamico, e che esso non sia paritario è biasimevolmente vero (anche se alcuni paesi hanno cercato di correggerlo); palesano però il suo doppiopesismo gli strali che ella lancia contro l''urfi, una forma di promessa davanti a Dio che però non crea un matrimonio giuridicamente valido.

Questa promessa, spesso pronunciata secondo lei anche nelle moschee italiane, viene talvolta usata per frodare le leggi contro la poligamia, tant'è vero che la legge tunisina considera bigamo e punisce anche chi contrae un 'urfi in costanza di matrimonio. Inoltre, Valentina Colombo rimarca che quest''urfi lascia la donna senza alcuna tutela né durante il rapporto né in caso di ripudio, nemmeno quella risicata prevista dalla shari'a.

Sulla poligamia, dico solo che lo stato ha il diritto di vietarla e punire i trasgressori; ma non capisco perché mai Valentina Colombo non lanci strali anche contro il matrimonio cattolico esclusivamente religioso, non trascritto nei registri dello stato civile. Anche se la chiesa cattolica cerca di evitare la situazione in cui una persona ha un coniuge secondo l'anagrafe ecclesiastica, ed un altro secondo l'anagrafe civile, pure questo tipo di matrimonio cattolico ha il difetto di lasciare la donna senza alcuna tutela.

Eppure agli occhi di molte donne cattoliche, vedove titolari di pensione di riversibilità, è un matrimonio allettante, in quanto le mette in pace con Dio e non compromette la loro pensione. Sarebbe interessante chiedersi se le donne che contraggono un 'urfi siano sempre vittime di un raggiro, e non persone che preferiscono la versione islamica dell'unione di fatto.

Se Valentina Colombo vuole che sia vietato l''urfi, oppure che produca effetti civili e penali ad onta della volontà degli sposi, deve per coerenza chiedere anche una modifica al Concordato che vieti alla chiesa cattolica di celebrare matrimoni esclusivamente religiosi, ed imponga la trascrizione nello stato civile di quelli già celebrati (di cui ogni diocesi tiene apposito registro).

Per giunta, Valentina Colombo si lamenta che ci siano tribunali europei (in primo luogo quelli inglesi) che non rifiutano di tener conto della shari'a quando si occupano del diritto di famiglia delle coppie mussulmane.

Non approfondisco la situazione inglese, ma faccio notare che chi (come anche il sottoscritto) non ama che un diritto religioso contamini un tribunale laico dovrebbe mostrarsi altrettanto deciso contro la disciplina del matrimonio cattolico con effetti civili in Italia, che non è quella del Codice Civile, ma quella data dal Concordato, che impone al diritto civile italiano di cedere in parte a quello canonico cattolico romano. Anche qui la parzialità di Valentina Colombo è evidente.

Inoltre, anche in Israele sono permesse cose che in Italia sanno di poligamia. Vi cito un caso che mi è stato raccontato: un signore già sposato si innamora di un'altra donna e va a vivere con lei.

La legge ebraica consente alla moglie di rifiutare il divorzio, salvo alcuni casi - ma non questo! Perciò il signore in questione non può terminare il suo matrimonio e, per tutelare la sua compagna, firma con lei un contratto da un avvocato.

Questo perché, anche se la Bibbia ebraica consente la poligamia, la legge ebraica successiva la consente solo in casi estremi, e la legge civile israeliana la vieta.

Non giudico questo signore, ma penso che la legge israeliana gli abbia consentito una sorta di poligamia - ed anche qui non si capisce perché le cose che attirano il biasimo di Valentina Colombo quando sono fatte dai mussulmani non le fanno aprir bocca quando accadono in Israele.

Altro doppiopesismo si ha nel campo dei matrimoni misti: quando sono i mussulmani a rifiutare il matrimonio di una mussulmana con un miscredente, questo è sintomo di chiusura; quando sono Benedetto 16° e Giacomo Biffi ad esprimere forti perplessità, essi esprimono condivisibile prudenza.

E su Israele Valentina Colombo ha detto qualcosa? Eppure l'inesistenza del matrimonio civile in quel paese rende impossibili i matrimoni tra ebrei e non ebrei, e complica parecchio la vita a molti ebrei che possono sposare solo persone particolari.

Per aggirare quest'ostacolo, molte coppie si sposano all'estero e poi chiedono allo stato d'Israele il riconoscimento del matrimonio - stratagemma valido anche per il Libano, ma non per altri paesi arabi e mussulmani come l'Egitto.

Inoltre, ebrei e mussulmani condividono l'opinione secondo cui chi sposa un gentile od un miscredente abbandona la propria gente; le conseguenze che ne traggono i mussulmani non le conosco (mi rifiuto di attribuire il delitto d'onore alla religione islamica pura e semplice), ma so che la tradizione ebraica vuole che chi fa quel passo venga trattato come un morto: viene pianto, non viene più contattato, e perde la sua parte di eredità.

Uno si domanda perché mai Valentina Colombo critichi il principio ispiratore di questo trattamento solo quando lo abbracciano i mussulmani - se è biasimevole (io lo ritengo disumano), lo è indipendentemente da chi lo mette in pratica.

Altra cosa molto fastidiosa è il suo atteggiamento verso le bevande alcoliche; ad onta del divieto coranico (non privo di incoerenze, come Valentina Colombo rileva), alcuni paesi mussulmani consentono e disciplinano legalmente la produzione di vino, birra ed altri alcolici. Però Valentina Colombo usa le cifre sul consumo di alcol pro capite (in forte discesa da alcuni decenni) per valutare la penetrazione e l'influenza dell'estremismo islamico.

Ora, se anche la diminuzione del consumo di alcol fosse esclusiva opera dell'estremismo islamico, sarebbe comunque estremamente meritoria: provate a chiedere ad un poliziotto o ad uno psichiatra se è più pericoloso un coniuge od un genitore cristiano alcolizzato od uno mussulmano astemio. Sarebbe meglio riconoscere che il proprio avversario una volta ogni tanto la fa giusta :-)

La cosa più grave mi pare il denunciare il desiderio di islamizzare l'Occidente con la predicazione. Ora, lo scopo è lecito ed il mezzo pure. Valentina Colombo può contrastare l'azione dei mussulmani scrivendo tutti i libri che vuole (e guai a chi cerca d'impedirglielo!), ma poiché tratta l'Europa come un paradossale waqf cristiano, che una sorta di spirito di Yalta riserva al cristianesimo, finisce con l'invocare restrizioni della libertà religiosa paragonabili a quelle che consegnarono l'impero bizantino ai califfi.

Infatti i bizantini furono tanto intolleranti da indurre le minoranze religiose a tradire il loro paese, perché si trovarono a scegliere tra la certezza delle persecuzioni da parte di Bisanzio e la promessa di tolleranza religiosa (anche se non di libertà religiosa nel senso di Martha C. Nussbaum) da parte dei califfi.

Scelsero i califfi, e fino all'Illuminismo la loro scelta fu la migliore. Non è tornando a prima dell'Illuminismo che si può sconfiggere il fanatismo religioso.

martedì 29 settembre 2009

The mistake of boycotting Israel

[1] http://www.haaretz.com/hasen/spages/1117398.html

The article [1] says that the Al-Ahram media group (the most powerful media group in Egypt, and therefore one of the most important in the Arab world) has decided to boycott all Israelis, whatever their position.

This means that no Israeli will be able to publish a word on Al-Ahram's media, be he Avigdor Lieberman (the hawkish Israel Foreign Minister) or Yariv Oppenheimer (the current Chairman of Peace Now), be he Dov Lior (the Qiryat Arba' rabbi, a shame to humankind, not just Judaism) or David Frumkin (Chairman of Rabbis for Human Rights), Yigal Amir (Yitzchaq Rabin's murderer) or a Holocaust survivor who can easily compare what (s)he had to undergo in his/her childhood and what is now being done to 1948 and 1967 Palestinians.

Boycotting all Israelis means refusing to distinguish between the righteous and the wicked, and preventing the former from ridding himself from the latter. A better boycott should be aimed to those who actually do evil - for example, boycotting the Israel Railways while they were trying to fire Arab employees, just because they weren't Jews, would have been well deserved (by the way, an Israeli court has eventually ruled that such a dismissal would be illegal, so the Israeli Railways had to keep these Arabs).

I know that Al-Ahram's boycott is in tune with what most Egyptians think and do, and they could also reply that Gaza's siege is a form of "collective punishment" as broad as theirs, and much bloodier, since many Gazans' lives are put in jeopardy by the Israeli Army, while refusing to talk to an Israeli doesn't harm him/her.

They're right, but two wrongs don't cancel each other, only reinforce each other. I don't see how Al-Ahram's boycott could improve the Palestinians' lot, or help topple one of the worst government in Israeli history.

domenica 20 settembre 2009

About the Golden Rule


This post is an English rewriting of this Italian blog post, for my non-Italian friends' sake.

This is a digression, not a treatise, on mathematics, halakhah (Jewish law) and moral philosophy, inspired by a lecture held in Verona (Italy) on February, 6th, 2009 by the UAAR as a tribute to Charles Darwin, who was born on February, 12th, 1809.

Among the lecturers there was the Dean of the Faculty of Mathematical, Physical and Natural Sciences of the University of Verona, Prof. Roberto Giacobazzi, who explained how negative results have often fostered the advancement of science; among the examples he mentioned, there were the Gödel Incompleteness Theorems, which refuted Hilbert's Program.

In short, David Hilbert aimed to ground all mathematics on a small number of axioms, which all theorems could be deduced from with purely formal techniques - as Prof. Giacobazzi said, "So that they could be proved by a machine". But Kurt Gödel proved that it was impossible, as there are some theorems that can't be proved as such.

Gödel's Theorems are the curse of pure mathematicians, but the blessing of the applied ones, who could then develop information technology, which is now enjoyed by everyone.

A trivial alliteration turns Hilbert into Hillel, the famous Jewish leader who was once challenged to teach the whole Torah while standing on one foot, and he replied by stating what is known as the Golden Rule: "What is hateful to you, don't do unto others. That's the whole Torah, the rest is commentary. Go and study." [Talmud Bavli, Shabbat, 13b]

Let's now focus on the Golden Rule: in my opinion, it was an attempt to deduce all halakhic rules from a single principle - a program akin to Hilbert's in mathematics.

It wasn't just Hillel who pursued this aim: the Talmud tells that there once was a dispute among rabbis about which Torah verse could summarize it all, and the winner was Ben Azay, who summed it up in the verse, "This is the book of the generations of Adam. In the day that God created man, in the likeness of God made he him." [Genesis 5:1].

Here you can read why was Ben Azay awarded victory, but I would focus on who came in second, Aqiva, who stated this version of the Golden Rule, "(...) Thou shalt love thy neighbour as thyself: I am the Lord." [Leviticus 19:18 - the words in italics are those you can read in the Israeli stamp which adorns this post].

Aqiva's competition entry was deemed less worthy than Ben Azay's since Ben Azay called for going beyond one's limits to respect to all creatures, but Aqiva's entry is crosscultural, i. e. you can find its equivalents even in cultures not (yet) influenced by the Bible.

The British philosopher Richard Mervyn Hare (1919-2002) certainly knew the Bible, and perhaps Jewish thought as well, as he was Peter Singer's master, and grounded his moral philosophy on the Golden Rule.

Moreover, he noticed that Immanuel Kant's Categorical Imperative's maxims could be deduced from it. Let's read the maxims:



  • Act only according to that maxim whereby you can at the same time will that it should become a universal law;

  • Act in such a way that you treat humanity, whether in your own person or in the person of any other, always at the same time as an end and never merely as a means to an end;

  • Therefore, every rational being must so act as if he were through his maxim always a legislating member in the universal kingdom of ends.


If somebody wants to inflict what he himself wouldn't be willing to bear on somebody, he goes against all these maxims; and who behaves according to these maxims wouldn't inflict what he wouldn't bear on anybody.


Once Kant distanced himself from the Golden Rule with this example: a duly convicted inmate could plead with the judge that he couldn't do unto him [the culprit] what he wasn't willing to do to himself [the judge], so the Golden Rule would force the judge to release the inmate.


I think that Kant's example is too naïve: a perfect judge would even apply law against himself (an example of such a man is Creon, a character in Sophocles' tragedy Antigone, who unwittingly destroys his own family for the sake of the law), so the judge would answer the petitioner that, had he been guilty, he would have sentenced and jailed himself.


Moreover, Georg Wilhelm Friedrich Hegel stated that the offender has the right to be punished, because punishment redeems him, and only who is accountable for his actions is honored as a rational being - in short, even punishments have their "utility" for the culprit, especially if he is convinced that he deserved them.


So, the way is cleared for Richard Mervyn Hare's attempt to join Immanuel Kant's moral philosophy with the Utilitarianism of Jeremy Bentham and John Stuart Mill.


Summing up, utilitarian theories assume that every human being has an "utility function" which relates the use of something or the performance of an action to the advantage (utility) to him/her.


The study of utility functions is quite a complex subject, best left to mathematics, philosophy, economics, biology, psychology mavens - I'm contented with hinting to their use as the basis of a moral philosophy.


An utilitarian thinks that the purpose of moral action is maximizing the "total utility" of the people involved; (s)he therefore:



  • wants that the principle of his action become an universal law - as it would foster utility maximization in any case, be the action carried out by him/herself or by anybody else;

  • treats everybody as an end in him/herself (who they want their utility to be maximized, and therefore cooperate with total utility maximization) and not just as means (for someone's utility maximization);

  • acts as a legislating member in the universal kingdom of ends (as anybody gives his contribution to and takes advantage of total utility maximization).

So utilitarianism can be derived from the Golden Rule and the Categorical Imperative; it's often claimed that it fosters an egoistic moral, but this claim can be easily refuted.


In most people, utility functions are such as that marginal utility is decreasing: drinking a glass of water when you're really thirsty is much more rewarding than after drinking a full bottle; and doctors in the developed world know that the same food that saves a hungry person hurts an obese one - who has eaten too much throughout his/her life.


In the same way, 10 Euros are of little utility to a tycoon, as he already has a lot of money, but of great utility to a beggar, who has very little money. Therefore utilitarianism would favor asking the rich to give to the poor (by way of alms, or by paying a progressive income tax which finances the welfare state), as the rich person's utility is only slightly diminished, but the poor's utility is greatly increased - thus maximizing total utility.


Utilitarianism thus encourages reasonable altruism, not stinginess. A greater drawback of utilitarianism is that people practicing it should spend their life making complex utility calculations, and they may not have the time to do that before acting.


Moreover, economists have discovered that utility functions are incomparable between people: somebody's utility function may be very different from somebody else's function, and the former may not know that.


It could be an argument in favor of market economy (because negotiating a price or an exchange rate is a way to make utility functions comparable), but it is also one of the explanations of why it is so difficult to choose the right gift for somebody - you may not negotiate it, so you have to guess the utility function of who is to be given something.


And a person who wants to benefit people, but can only rely on guesswork or even sophisticated utility calculus, may actually make gross mistakes and bring damage instead of benefit. A good argument against totalitarianism.


George Bernard Shaw stated,"The golden rule is that there are no golden rules", and ironically also said, "Do not do unto others as you would they should do unto you. Their tastes may not be the same." To overcome this serious objection, Richard Mervyn Hare establishes two levels of moral thought - the intuitive and critical levels.


The intuitive level is the one of the simple moral precepts taught to children, the ethical principles which can be found in the charters of the liberal professions, or even in the Constitutions of the States; these principles warrant adequate utility optimization in most life circumstances, and spare the utilitarian the time and effort moral calculus requires, but they may at times clash, and force to rise to the upper level.


The critical level is the level of actual moral calculus, with the aim of maximizing total utility.


The interplay between the intuitive and the critical level can be explained with an example: when there is only one chair, it is always good manners that the man stands and lets the woman sit on the chair.


Stated as such, it is an intuitive level principle; the critical reasoning behind it is that women's pelvis makes harder for them to stand, so total utility maximization is achieved when the man stands and the woman sits.


In case the woman is young and healthy, and the man old and sick, critical thought may lead to a different decision - to let the man sit down. Critical thought is also required to acknowledge that this weakness of women doesn't imply that they should be treated as second-class citizens, and that all traditions that foster the disenfranchisement of women are wrong.


Critical thought is the tool which has promoted change in history, but in the moral realm it should be used with some care, as Richard Mervyn Hare points out that it is easy for a person directly involved in a stressful moral case, and who may not fully know its terms, to fall into the special pleading fallacy (i. e. wrongly claiming that one's case is a real exception to the rules) instead of performing correct critical thought.


In this case, Hare advises to turn to the advice of a third party, if possible; if not, to resist the temptation to break the usual rules, because the risk is to actually reduce total utility instead of increasing it.


The situation is similar to that of a soldier fighting at front line: maximization of total utility may require him/her to forgo his/her life, or to leave the battlefield; but he may not know which is the best option because he doesn't have the whole picture of war in front of his eyes - so it's best for him to stick to orders, unless they're clearly senseless.


Hare's advice allows us to stop talking about utilitarianism and resume talking about halakhah. There is a lot of popular halakhic literature (on the Web), which often warns the reader that a practical problem involves a conflict of mitzwot (commandments) which must be solved by a rabbi.


I therefore think that this rabbi has to resort to decisional calculus, even though it may not be laid out in the form of a mathematical formula, in which the relative weight of each mitzwah and the circumstances requiring strictness or allowing leniency are present.


A case which has struck me is this. As you can read, a cohen (priest; akin to Arabic kahin - soothsayer) must not enter a building in which there are corpses, so visiting a sick in hospital entails a conflict of mitzwot that must be solved by a rabbi.


In Israel statistics have been collected on the country's hospitals, so a rabbi may know what's the actual risk of contracting tumat met (corpse impurity), and decide whether, given the circumstances, is a risk worth taking.


Even though he may not use mathematical formulae, the rabbi clearly has to make a reckoning based on these statistics; Hillel ended his summary of the Torah with the imperatives, "Go and study", and the verb "study" probably meant "learn halakhic calculus."


Many everyday situations apparently require a rabbi's advice, and therefore I think that halakhah requires a behavior optimization far higher than the one usually required in post-Christian countries like Italy.


If you want to apply Hare's distinction between intuitive and critical moral reasoning to halakhah, you have to give very little importance to intuitive reasoning, because the Jewish ideal is that anybody (or at least every adult male) be able to master critical halakhic reasoning.


I talked about the "relative weight of the mitzwot"; can it be reckoned? As far as I know, the question is deemed silly, or even blasphemous, because each and every mitzwah is important, and none can be neglected.


A more elegant answer would be remarking that if we could really evaluate the "relative weight of the mitzwot", we would know God's utility function - and we already know that we can't even know human utility functions. Moreover, had human reason been up to that, Revelation would have been useless, since pure reason would have sufficed.


So, we can't actually know what's the relative weight of the mitzwot; but practical needs force us to behave as if such a comparison were possible, so we may wonder if Aqiva's and Hillel's program, to deduce all mitzwot from a single principle, could help us.


I'm afraid that we have now to remember Prof. Giacobazzi's words, namely that a negative result is often more fruitful to science than a positive one. The author of the negative result we're dealing with now is Maimonides, who wrote in his Guide for the Perplexed that the mitzwot could be classified into mishpatim (judgements) and huqqim (decrees).


While a rationale can be found for mishpatim, so they may hopefully be derived from the Golden Rule, no rational explanation can be given to huqqim, which should be obeyed because they're revealed, not because they're rational.


Maimonides refuted Hillel and Aqiva, and halakhah may not be considered a kind of moral philosophy, even though there are lots of interesting similarities between them.

Impressioni dopo un viaggio in Egitto

In fondo a questo post troverete un articolo di Hassan Ansah, scrittore e giornalista freelance che insegna alla Western International University di Phoenix, Arizona, USA, ed all'American University of Cairo, Egitto.

Il prof. Ansah parla del perché mai in un paese di 80 milioni di abitanti, ed in una città che di milioni di abitanti ne ha quasi 20, con un reddito pro capite che è un quinto di quello italiano, i crimini violenti siano estremamente rari - ed ho potuto constatare di persona che vecchi, donne e bambini vanno in giro per il Cairo alle due del mattino senza timore alcuno, mentre gli abitanti delle periferie di Tel Aviv si chiudono in casa già alle nove di sera per non fare brutti incontri.

Quello che dice Hassan Ansah non è quindi solo una vanteria e, confrontando il Cairo con il resto del mondo occidentale (Israele compreso), potremmo dire che abbiamo completamente fallito, perché uno stato che non riesce a garantire l'incolumità delle persone è uno stato che non ha senso.

Qualcuno dirà: "E gli allarmi del governo israeliano ai suoi cittadini perché non si rechino in Egitto?" Li avevo presi sul serio (anche se non sono israeliano) e stavo attento, ma nessuno ha cercato di torcermi un capello.

Da anni non accade assolutamente nulla agli israeliani che si recano in Egitto, e gli stessi miei amici israeliani si sono convinti che questi allarmi servano più a combattere la "concorrenza sleale" che gli albergatori egiziani fanno agli albergatori israeliani che a tutelare l'incolumità dei cittadini - il dubbio è emerso negli anni scorsi anche sulla stampa israeliana.

Ho degli amici in Egitto che hanno reso il mio soggiorno più bello, e mi hanno detto che è molto consigliato per un israeliano non rivelare la sua nazionalità, perché è soltanto il governo egiziano che ha rapporti con il governo israeliano; a livello sociale, avere a che fare con degli israeliani è assolutamente tabù, e questo vale sia per il mendicante che per l'uomo di cultura - ed anche per le banche: nessuna banca egiziana cambia sicli israeliani (e le banche israeliane ricambiano il favore non cambiando lire egiziane).

Ma il rischio per l'israeliano che viene scoperto è l'essere snobbato, non l'essere aggredito ed ucciso. Ho potuto scoprirlo quando mi hanno riaccompagnato all'aeroporto del Cairo: il mio accompagnatore si dimostrò estremamente gentile finché non scoprì che dovevo prendere un volo El Al per il Natba"g (Namal Te'ufah Ben Gurion - Aeroporto Ben Gurion): la sua cortesia divenne da tropicale polare in un batter d'occhio, ma all'aeroporto mi portò.

L'articolo di Hassan Ansah compare a pagina 62 della 5^ edizione italiana (Ottobre 2008) della guida "Lonely Planet" dell'Egitto; è un'ottima pubblicazione, ma con un difetto: è redatta da americani, che sono abituati ad un traffico ordinato come quello di una ferrovia od una rotta aerea, e quando si trovano nella Megalopoli Vittoriosa (Al Qahira = La Trionfante) si spaventano di fronte ad un traffico "allo stato di natura".

In Egitto non è obbligatoria la patente per guidare; come dissi ad un amico egiziano: "Un'auto di 200.000 chilometri è vecchia in Italia, ma è giovane al Cairo" e, sebbene non manchino viali larghi anche cinque corsie per carreggiata, circolare in questa megalopoli nei giorni feriali (venerdì e sabato sono festivi) vuol dire spostarsi da un ingorgo all'altro. Chi parla male degli automobilisti israeliani dovrebbe fare una capatina al Cairo.

Però ... proprio perché la velocità media è bassa (soltanto a notte fonda ci si può arrischiare a correre nei viali di circonvallazione), gli incidenti mortali sono estremamente rari, ed anche i bambini di cinque anni possono permettersi di attraversare alle nove di sera rotonde di tre corsie intorno all'isola di traffico, senz'altra precauzione che guardare gli automobilisti negli occhi, e sopravvivere! In Europa verrebbero immediatamente investiti.

Ci sono un mucchio di poliziotti al Cairo e dintorni, a tutte le ore del giorno e della notte, ma quando si tratta di traffico si occupano solo delle infrazioni più gravi; circolare di notte a luci spente (gli egiziani sono generosissimi con i loro ospiti, ma quando si tratta di lampadine elettriche sono spilorci), anche sull'autostrada che porta dal Cairo ad Alessandria attraverso il deserto, non è considerata un'infrazione grave.

Potrei raccontarvi diversi gustosi aneddoti sul traffico del Cairo, ma vi dico solo che non ho visto gatti spiaccicati per le strade - spettacolo invece comune in Italia; in compenso sulla sopraelevata ho visto una volta la carcassa di un cane randagio. Probabilmente i guidatori egiziani rispettano i mici come i loro antenati dell'epoca dei faraoni - mentre non amano altrettanto i cani, che la maggior parte dei mussulmani considera impuri.

Visto che qui si parla spesso dell'Islam e del pericolo che consisterebbe per la civiltà europea, vorrei dire che, sebbene l'Egitto sia considerato dalla Freedom House un paese "non libero", si svolgerà lì il prossimo mese il congresso dell'Internazionale Liberale, il che vuol dire che un minimo (ma un minimo basso) di libertà in quel paese c'è.

I miei amici hanno detto che gli egiziani sono il popolo più religioso del mondo arabo, ma non hanno niente dello stupido fanatismo dell'Arabia Saudita. I sauditi sono considerati il più ignorante dei popoli arabi, e la loro religiosità vuota e puramente formale.

Infatti, loro pregano e studiano, ma la corruzione in quel paese impera, e gli uomini lì molestano le donne in tutti i modi (non solo opprimendo quelle della loro famiglia, ma proprio molestando sessualmente amiche e colleghe di lavoro, come se il sesso fosse per gli uomini un diritto e per le donne un dovere). Se questo è essere buoni mussulmani ..., commentavano i mei amici che in Arabia Saudita ci sono stati per diverso tempo.

Il caso della giornalista che ha rischiato la fustigazione in Sudan perché indossava il velo ed i pantaloni è ben noto e condannato in Egitto - e quando me ne hanno accennato, ho risposto: "Mi volete dire che la metà delle donne egiziane non può mettere piede in Sudan perché è vestita proprio come quella giornalista?", ed i miei interlocutori hanno apprezzato il commento.

Infatti il 90% delle donne egiziane porta il velo; però ... non si comportano diversamente dalle donne che incontro in Italia. Ci sono infatti donne (di tutte le età: alcune donne portano il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi, ma se una donna è bella e giovane, lo si capisce lo stesso) che portano oltre al velo sui capelli una palandrana che nasconde le forme del corpo, e ragazzine che oltre al velo portano i jeans e magliette tanto strette che puoi capire non solo la misura, ma perfino il tipo di reggiseno che indossano.

Queste ragazzine vanno in giro da sole o con le amiche, vanno a braccetto col fidanzato, vanno a cena con lui al ristorante ... si comportano insomma come le ragazzine europee; che col ragazzo vadano anche a letto è abbastanza improbabile, ma in pubblico non sembrano per nulla oppresse.

Non sono tipo da danza del ventre, e di arabo conosco pochissime parole (lo avevo studiato anni fa, ma poi l'ho dimenticato), per cui i miei amici hanno avuto l'idea di portarmi a due letture poetiche. La lingua araba è considerata specialmente adatta per l'oralità, ed ho potuto constatarlo: non capivo nulla delle parole, ma riuscivo ad apprezzare il ritmo e la musicalità dei versi, ed a farmi perciò un giudizio su quel che veniva declamato.

I miei amici mi accennavano al contenuto delle poesie, e riuscivo così a capire anche perché ogni tanto il pubblico rideva a crepapelle quando il poeta satireggiava i vizi pubblici e privati dell'Egitto.

Alcuni di questi poeti hanno voluto cantare la loro poesia, non soltanto declamarla, e mi sono sentito come un abitante del deserto che quindici secoli fa ascoltava un aedo - insomma, catapultato agli albori della poesia araba; ma non c'è solo l'antichità delle forme in queste canzoni: uno di costoro aveva portato un lettore MP3, lo collegò all'amplificatore della sala, e poté cantare accompagnato da musica e coro.

Visto che il cantautore parlava anche inglese, gli chiesi poi se lui aveva comprato una base da karaoke ed aveva adattato ad essa la sua canzone; mi rispose che si era invece recato in uno studio discografico e l'aveva fatta incidere lì. Non potei che complimentarmi calorosamente per l'ottima musica ben abbinata ai suoi versi, e notare che gli egiziani sono pienamente a loro agio con la tecnologia.

La seconda lettura poetica era alla fine di una serata organizzata da una società di geologia, sotto forma di una serie di brevi conferenze - sembra che sia una tradizione egiziana od araba terminare una serata dedicata ad argomenti seri con una lettura poetica molto apprezzata dal pubblico, e non ho potuto fare a meno di ricordare l'antica tradizione del teatro europeo di far seguire alla tragedia la commedia, oppure le tenzoni poetiche che si svolgono ancora nelle feste patronali in Sardegna, in cui dopo la messa solenne i sardi mostrano un amore per la poesia "in limba" non inferiore a quello degli arabi.

Quando sono entrato nella sala in cui si sarebbe svolta la lettura poetica, era in corso un'animata discussione, ed un'amica mi spiegò che il relatore aveva pesantemente criticato il pensiero di Sayyid Qutb, il principale ideologo dei Fratelli Mussulmani, ed una ragazza del pubblico aveva ritenuto che la critica fosse andata troppo oltre, finendo con l'attaccare anche i fondamenti dell'Islam.

Commentai con la mia amica: "Beh, anche se aveva torto, sono stato contento che ad alzare la voce sia stata una donna"; la mia amica rise e rispose: "Le donne arabe non stanno mica zitte: mi conosci, no?"

Quando ero in Egitto, era Ramadan, ed avevo paura di morire non di fame (sono abbastanza grassoccio per sopravvivere a queste cose), ma di sete. Però i miei amici mi spiegarono che l'Egitto non è l'Arabia Saudita, e che è permesso mangiare e bere in pubblico durante il Ramadan; pertanto era mia scelta se digiunare o no.

Vi posso raccontare quello che ho potuto constatare durante il Ramadan al Cairo: quando il pomeriggio volge verso la sera, ed il sole sta per tramontare, la gente va nei caffé e nei ristoranti (anche nei locali KFC, McDonald, ecc.), ed occupa il posto in attesa che il muezzin proclami "Allahu akbar", interrompendo così il digiuno, e poi si avventa sul cibo.

Chi non viene prima, può dover aspettare anche due ore prima di riuscire a mettere qualcosa sotto i denti; ho potuto però constatare che molte persone non hanno la pazienza di attendere le parole del muezzin, e nessuno si rifiuta di servirli; mi è capitato di mangiare in un ristorante a mezzogiorno (un bel ristorante nel Khan Al-Khalili, l'antichissimo mercato della città) che era aperto, con i camerieri in divisa, pronto a ricevere la clientela - che poteva entrare tranquillamente, senza guardarsi intorno come chi sta per godere di un piacere proibito.

Ma la cosa più interessante era avvenuta già di mattina: avevo appuntamento con i miei amici in Midan At-Tahrir (Piazza della Liberazione), la più importante piazza del Cairo, ed essendo arrivato in anticipo, sono entrato in un bar per bere qualcosa.

Non c'erano molte bibite nel frigo con la vetrina (probabilmente erano conservate nel congelatore in attesa della rottura serale del digiuno), ma c'era una lunga fila di narghilé (la parola è d'origine persiana, ed è usata nella forma "nargila" in Libano e Palestina; in Egitto li chiamano "shisha") pronti per l'uso, e su un fornello c'era la brace ardente che bisognava mettere sulle foglie di tabacco al momento di fumarle.

La brace non è bruciata inutilmente: mentre io bevevo le mie bibite, altre persone sono entrate nel bar ed hanno fumato il narghilé, chi per poco tempo, chi a lungo e voluttuosamente. Non che mi auguri che i mussulmani violino i precetti della loro religione (anche perché, come mi hanno ricordato i miei amici, certo li ha violati la minoranza dei terroristi che ha insanguinato il mondo), ma queste piccole violazioni del Ramadan sono la dimostrazione che in Egitto si è osservanti per libera scelta.

Certo, i problemi non mancano: per esempio, anche se ho visto molte chiese relativamente nuove al Cairo, il Dipartimento di Stato USA lamenta che i cristiani (il 30% della popolazione, quindi circa 24 milioni di persone) sono fortemente discriminati, e non riescono a costruire nuove chiese; gli ebrei sono quasi scomparsi (anche se ho potuto visitare la Sinagoga di Ibn Ezra, quella nota in tutto il mondo grazie alla sua "ghenizà"), ed ai Baha'i è riservato un trattamento canino.

E' inoltre da evitare il dichiararsi atei o sostenitori dei Fratelli Mussulmani - non si deve dimenticare che Sayyid Qutb fu fatto impiccare (morte particolarmente ignominosa per un mussulmano) da Gamal Abdel Nasser (mentre tutti i governi israeliani hanno rifornito invece di armi micidiali i discepoli di Rav Avraham Yitzchaq Quq che andavano a violare la 4^ Convenzione di Ginevra - per non dir peggio).

Gli stessi giornali egiziani lamentano che la democrazia in Egitto è di livello molto inferiore a quello dei paesi più avanzati, e certo inferiore a quello richiesto dalle mai sopite ambizioni egiziane di essere la nazione guida del mondo arabo.

Direi però che chi teme il "califfato universale" viene smentito da quello che ho visto: molti mussulmani egiziani disprezzano il wahabismo che l'Arabia Saudita sta cercando di diffondere in mezzo a loro, e la maggioranza vuole continuare ad essere religiosa, ma anche tollerante e pragmatica. Il radicalismo è un problema soprattutto dei mussulmani, che ne sono le prime vittime, e solo in seconda battuta nostro.

Le donne arabe hanno la lingua lunga come il Nilo, e stanno lentamente ma risolutamente cercando di liberarsi del maschilismo - mi sono rammaricato di dover dir loro che in Italia (paese che gli egiziani amano moltissimo) la situazione è purtroppo ben lontana dall'ideale.

Anzi, direi che è quasi peggiore: dopo il mio ritorno dall'Egitto ho cominciato a leggere i romanzi di Nagib Mahfuz (1911-2006), Premio Nobel per la Letteratura 1988, e vittima nel 1994 di un attentato da parte di un membro dei Fratelli Mussulmani.

Mahfuz non è per nulla femminista, e fa fatica a dar voce ai suoi personaggi femminili; purtuttavia le sue donne sono delle vere e proprie "virago", spesso più forti dei suoi uomini, e certo molto più forti delle donne dei romanzi europei ed italiani che ho letto - salvo quelli di Grazia Deledda, che attinge alla stessa tradizione matriarcale mediterranea.

Se quello che vale per la letteratura vale anche per la vita, devo pensare che le donne egiziane sono capaci di mangiare i fagioli in testa a qualsiasi uomo italiano.

Molte donne italiane hanno paura dell'Islam perché si rendono conto che gli uomini italiani sono deboli e potrebbero essere tentati di ricorrere all'antifemminismo della pratica corrente dell'Islam per ristabilire il loro traballante status; il consiglio che darei loro sarebbe di dire a questi fifoni: "Vi piace l'Islam? Bene, ma non lasciate venire qui solo gli imam fondamentalisti, quelli che al loro paese non se li fila nessuno o rischiano di finire in prigione; portate anche le donne mussulmane in età da marito e provate ad essere degni di loro!"

Garantito che gli uomini italiani preferiscono una Lucia Mondella ad un'Umm Hamida (una delle protagoniste di "Vicolo del mortaio", e non la più feroce delle virago di Mahfuz) e, dopo aver misurato la differenza, se si convertiranno all'Islam sarà per convinzione e non per comodo :-)

Tra parentesi, anche gli egiziani hanno ovviamente degli stereotipi nei nostri confronti, tra i quali quello secondo cui americani ed europei sarebbero estremamente colti - ho detto solo che non è purtroppo vero, e non sono sceso in particolari parlando di Giovanni Gentile (la cui riforma del 1922 fu ferocemente stroncata da Vito Volterra con argomenti che non hanno perso di attualità), Giovanni Berlinguer e Maria Stella Gelmini :-)

Ora vi copio l'articolo. Vi avverto però che esso parla solo dei crimini violenti, non delle truffe e delle insistenti pretese di "bakshish" (mance o mazzette), tutte cose molto frequenti che impongono al turista di stare in campana: non vi ammazzano e non vi stuprano, ma se gliene date l'occasione, vi spennano.

Attenti soprattutto a chi esordisce dicendo: "Ma lo sa che lei sembra proprio egiziano?" E' un modo di fare un complimento, ma il più delle volte chi lo fa vuole poi fregarvi. Io mi sono sentito dire: "Ma lo sa che lei sembra ebreo?" quando ho comprato un librone sulla Sinagoga di Ibn Ezra senza contrattare il prezzo - ma chi sta facendo di tutto per tenere aperto questo monumento merita la mia generosità.

La cosa peggiore è che in Egitto vige (per costume, non certo per legge) il "doppio prezzo" - ovvero al turista viene imposto un prezzo ben maggiore che al nativo; andare in taxi con un egiziano significa risparmiare un bel po' di soldi.

(quote)

L'assenza di criminalità violenta in Egitto, di Hassan Ansah

I sociologi sostengono che la criminalità e la povertà siano strettamente correlate e praticamente inscindibili. Eppure, nonostante le diffuse e talvolta terribili condizioni di povertà in cui la maggioranza degli egiziani si ritorva a vivere, il tasso di criminalità violenta dell'Egitto è inferiore a quello degli Stati Uniti e del Regno Unito. Ovviamente viene spontaneo chiedersi perché i crimini violenti siano così rari, soprattutto i casi di stupro e di omicidio; stupisce in particolare che questi dati valgano anche per il Cairo, dove milioni di persone vivono in condizioni di alta densità demografica, disoccupazione e disagio urbano. Per dare una risposta a questa domanda occorre innanzitutto capire che la criminalità - al pari di qualunque altra variabile sociale - rispetta le norme culturali di un paese.

Mentre molte nazioni sviluppate dell'Occidente hanno la tendenza a guardare con sospetto le società islamiche come quella egiziana, in realtà avrebbero molto da imparare da un paese che attribuisce una tale importanza alla fede. Per la maggioranza degli egiziani la vita terrena è finalizzata all'aldilà (un religioso del luogo ha osservato scherzando che in Egitto tutti vivono per buona parte del tempo in una bara!), in osservanza di una tradizione conservatrice che pervade praticamente ogni aspetto dell'esistenza. Tale atteggiamento ha creato e mantenuto un sistema di valori e di principi morali che ha contribuito a ridurre la criminalità violenta. Diversamente da quanto accade nei paesi occidentali e anche in altre due potenti nazioni africane, il Sudafrica e la Nigeria, in Egitto la criminalità raramente è casuale e non è mai rivolta verso gli stranieri.

Benché il governo egiziano cerchi di porre le basi di una società gestibile e rispettosa delle leggi, in realtà sono la famiglia e la comunità a far sì che si crei l'ambiente sicuro e privo di pericoli presente in tutto il paese. In Egitto la religione è la struttura che regola ogni aspetto dell'esistenza e che tiene unita la nazione. L'ethos familiare, mantenuto e alimentato dalla legge islamica, costituisce la base su cui si fondano i principi e i sistemi di collaborazione, arbitrato, soluzione dei conflitti e assistenza economica dell'intera comunità. Queste interazioni servono anche a far rispettare i valori morali comuni, un fatto che funge indubbiamente da deterrente contro la criminalità all'interno della comunità. La violazione di questi codici etici non scritti ha spesso conseguenze pesanti, al punto che chi li infrange potrebbe non riuscire a trovare un lavoro, un consorte, una casa o perfino incontrare gravi difficoltà con la burocrazia dello stato.

A differenza dei paesi occidentali, dove i conflitti vengono spesso risolti all'interno dei tribunali, in Egitto la maggior parte dei contenziosi e delle trattative si svolge in pubblico in modo alquanto teatrale, con lo scopo di sostenere o danneggiare la propria o l'altrui reputazione. Per esempio, una procedura normale consiste nel mettersi a gridare per strada, in una tranquilla serata qualunque, per rimproverare un amico in ritardo nel saldare un debito, rendendo così noto all'intera comunità che la persona in questione è disonorevole e poco affidabile. Oppure, nei casi di violenza coniugale, per le donne è considerato del tutto normale salire sul tetto della propria casa e urlare che il marito le ha percosse.

Questo codice morale messo in atto dalla comunità crea un ambiente assai poco invitante per gli aspiranti criminali. Anzi, secondo alcuni, queste reti sociali informali e profondamente legate tra loro servirebbero anche a mitigare il senso di povertà percepito dalla maggioranza degli abitanti. Come ha detto un cairota, forse è la radicata abitudine egiziana a "ficcare il naso" che aiuta a mantenere la pace.

Hassan Ansah è scrittore e giornalista freelance che insegna alla Western International University di Phoenix, in Arizona, e all'American University of Cairo (AUC).

(unquote)

lunedì 7 settembre 2009

Autorità di certificazione

[1] http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3773089,00.html

Questo è uno dei tanti articoli che mi capita di leggere in cui gli ebrei israeliani non ortodossi si lamentano di essere non solo snobbati dai loro correligionari ortodossi, ma anche esclusi dal godimento dei servizi religiosi pagati dallo stato d'Israele con i soldi del contribuente, e di fatto riservati agli ebrei ortodossi.

Tutta la mia solidarietà va agli esclusi, conservatori e riformati, ma credo che stiano ambendo all'obbiettivo sbagliato.

Tutto nasce dal fatto che il popolo ebraico è l'unico popolo della terra (più grande di una tribù) in cui appartenere a quel popolo e ad una religione in particolare coincidono. Perciò una persona non si sente pienamente appartenente a quel popolo finché non è ammessa a tutti i servizi predisposti per le persone di quella religione.

Una persona che voglia mangiare kasher non ha bisogno di chiedere il permesso, e non ho mai sentito di persone cacciate da una sinagoga perché non ebree; invece, come dice l'autore di [1], essere ammessi (od ammesse, perché la cosa riguarda più frequentemente le signore) ad un miqweh (bagno rituale) se non si è ebrei ortodossi è praticamente impossibile.

Inoltre, le spese per i servizi religiosi (anche quelli di cui godono anche i non ortodossi, come i mattatoi kasher) sono sostenute da tutti i contribuenti israeliani, anche dal 20% dei cittadini israeliani non ebrei, che vedono che soltanto il 15% del budget del Ministero per gli Affari Religiosi è dedicato a loro.

Riformati e conservatori vogliono una parte di quel budget, ma non credo sia solo una questione di soldi; ritengono che, se lo stato finanzia anche le loro sinagoghe, apre anche a loro i miqwaot (plurale di miqweh), ecc., questo significhi che li ritiene ebrei a pieno titolo al pari degli ortodossi.

Lo sbaglio qui sta nell'attribuire allo stato d'Israele una funzione a cui gli altri stati dell'occidente hanno abdicato da tempo: regolamentare le questioni religiose, stabilendo in primis chi è ebreo e chi non lo è, ed imponendo all'occorrenza interpretazioni della legge religiosa che originano dal parlamento o da un tribunale civile, e non dalle fonti proprie di quella religione.

Nella tradizione mussulmana, questo è considerato normale; non può esserlo per un paese liberaldemocratico come Israele vuole essere.

In un simile paese lo stato dovrebbe astenersi scrupolosamente da tutto ciò che riguarda le identità collettive, tra cui appunto quelle religiose; dovrebbe essere consentito il matrimonio civile, e le discriminazioni tra ebrei e non ebrei dovrebbero essere abolite. A questo punto l'essere "ebreo" non aggiungerebbe granché all'essere "israeliano".

Questo lascerebbe i conservatori ed i riformati che vogliono riunirsi agli ortodossi, ed essere considerati ebrei anche da questi ultimi, con la sola arma della diplomazia - ma credo che sia l'unico modo efficace.

Se nessuno ha il controllo sulle risorse che lo stato destina alla religione ebraica (perché lo stato si è appunto completamente separato dalle religioni, e non destina a loro risorsa alcuna), nessun altro può sostenere che gli viene fatto torto.

Per quanto riguarda la Legge del Ritorno, spauracchio agitato da tutti gli oppositori della separazione della religione dallo stato, la si può conservare come misura umanitaria: gli ebrei hanno bisogno di un rifugio, e la Legge del Ritorno glielo fornisce.

Si tratta di un bisogno che gli ebrei sentono in misura più intensa degli altri popoli, e con il resto del mondo meno disposto a fornirlo a loro che ad altri (la conferenza di Evian del 1937 lo prova); una misura speciale per loro non viola pertanto il principio di eguaglianza, e tocca ad Israele provvedere.

Per quanto riguarda i profughi palestinesi, la loro sorte sarà stabilita dal trattato di pace.

martedì 1 settembre 2009

Fallacie naturalistiche: evitarle e caderci

[1] http://www.bol.it/remainders/Chi-e-l-uomo/Abraham-Joshua-Heschel/ea978887710638/

[2] http://www.moked.it/unione_informa/081229/081229.htm

[3] http://sbp.provincia.verona.it/index.php?page=View.DocDetail&id=440842

[4] http://www.bol.it/libri/diseguaglianza.-riesame/Amartya-Sen/ea978881507876/

[5] http://www.bol.it/libri/audacia-speranza.-sogno/Barack-Obama/ea978881702435/

[6] http://www.cortecostituzionale.it/istituzione/lacorte/fontinormative/lacostituzione/costituzione_principii.asp

In un altro post di questo blog ho citato il rabbino americano Abraham Joshua Heschel z. l., e come sapeva evitare brillantemente la fallacia naturalistica, ovvero il credere che, poiché una cosa si rinviene in natura, essa abbia anche un significato morale.Ammetto anche che una volta volevo citarlo in una storiella di fantascienza: un'extraterrestre femmina (nel senso che assume sembianze femminili quando si trova tra gli umani) vuol diventare ebrea, e l'unico rabbino capace di darle una risposta sensata (anche se negativa) risulta proprio AJ Heschel.

Lui infatti spiega in [1] che non si accontenta della definizione di essere umano che darebbe un biologo, in quanto l'uomo per lui è un essere alla ricerca di significato; e la sua dignità consiste nel sentirsi necessario e desiderato da un essere supremo - D%o, che lo desidera sebbene non Gli manchi nulla, e così lo ama per quello che è e non per quello che si aspetta da lui.

Per cui il nostro rabbino risponde alla postulante che per lui conoscere qual forma di vita ella sia non è rilevante; il requisito essenziale per un giur (conversione) è invece il sentirsi desiderata dall'Et^rno, perché allora può ricambiarLo ed entrare in rapporto con Lui nelle forme e nei modi stabiliti dall'ebraismo.

Se lei prova questo sentimento, tutti gli ostacoli alla conversione possono essere affrontati, altrimenti non è il caso di provarci - e la postulante onestamente ammette che non è il suo caso.

Passando dalla letteratura alla realtà, devo dire che non tutti gli ebrei riescono ad evitare la fallacia naturalistica nel modo brillante di Heschel.

Un esempio lo troviamo in [2], che riporto:

(quote)

Un pensiero per l'ottavo e ultimo giorno di Chanukkà. I giardini pubblici a Roma sono recintati con una tipica barriera alta circa un metro fatta di tronchi di legno disposti a “x”. Quasi della stessa altezza e allo stesso modo era fatto il sorèg, una delle barriere, più simboliche che reali, che delimitavano l'accesso al Tempio di Gerusalemme. La Mishnà (Middot, cap. 2) racconta che quando i greci profanarono il Tempio introducendovi l'idolatria, aprirono tredici varchi nel sorèg; gli Asmonei quando vinsero e restaurarono il Tempio li chiusero, introducendo la prescrizione ai passanti di fare un inchino davanti a questi varchi. Quello che non racconta la Mishnà è il significato di questa apertura e chiusura; il sorèg serviva a delimitare l'area oltre la quale i non ebrei, che pure erano benvenuti a pregare nell'area del Tempio (come già aveva detto il re Salomone) non potevano passare. Altre aree più interne erano progressivamente precluse a diverse categorie del popolo ebraico (non sacerdoti ecc.). L'idea dei greci e dei loro collaboratori, aprendo il sorèg, era di rendere tutti uguali. Ma forse più che democrazia era demagogia, perché spesso proprio quando si dichiara che tutti sono uguali emergono le differenze.

[Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma]

(unquote)

Gli ultimi due periodi di Rav Di Segni, cioè "L'idea dei greci e dei loro collaboratori, aprendo il sorèg, era di rendere tutti uguali. Ma forse più che democrazia era demagogia, perché spesso proprio quando si dichiara che tutti sono uguali emergono le differenze." sono dal mio punto di vista problematici perché "le differenze" vengono qui assolutizzate.

Non ci si chiede qui se ciò che è differenza rilevante in un contesto (per esempio, nel Tempio di Gerusalemme) è irrilevante in un altro (la vita sociale e politica in un paese in cui si osserva la separazione della religione dallo stato, ad esempio), né in base a cosa alcune differenze vengono ignorate ed altre invece evidenziate nei diversi contesti.

Tutto questo fa pensare che "le differenze" di cui parla Rav Di Segni siano per lui "autoevidenti", che cioè si impongano alle percezioni ed al pensiero di ognuno per forza propria, contro cui è vana ogni decisione umana.

Ovvero: fanno parte dell'ordine della natura, ed hanno un significato che non è solo conoscitivo, ma anche etico.

Heschel, insistendo che l'uomo deve imparare dalla storia e non dalla natura a distinguere il bene dal male, riusciva ad evitare splendidamente questa fallacia.

Rav Di Segni non è l'unico ebreo che ci cade; ci cadde anche un grande pensatore socialista come Léon Blum.

Non ho più il brano che lui aveva scritto, citato in [3], e devo accontentarmi di riassumerlo a memoria: lui diceva che l'eguaglianza sociale e politica deve ricalcare le disuguaglianze naturali senza aggiungervi o togliervi nulla - dimodoché se una persona è diseguale, non è perché la società gli ha fatto torto.

Blum aveva scritto questo nel 1945, poco dopo essere uscito dai campi di concentramento nazisti, e poco prima di morire, e certo non pensava alle "disuguaglianze" tra le "categorie" di persone normalmente conosciute come razza, sesso, religione, eccetera, ma alle disuguaglianze tra gli individui che portano a disuguaglianze di talento e capacità di guadagnarsi da vivere.

Se vogliamo, l’eguaglianza di Blum è simile a quella del buon maestro di scuola, che nota che nella sua classe ci sono alunni più dotati ed altri meno, ed i voti che somministra rispecchiano questa disuguaglianza e nient’altro.

Già pedagogicamente, questo paragone sarebbe considerato molto ingenuo; e nella filosofia politica il problema della disuguaglianza è molto spinoso, tanto che mi guardo bene dall'affrontarlo qui (chi vuole averne almeno un'idea può leggersi [4]); voglio solo ripetere quello che disse una volta Warren Buffet a Barack Obama (citato in [5]), cioè che il talento non è una semplice dote naturale, perché ogni società favorisce una precisa gamma di talenti.

Warren Buffet è uno degli uomini più ricchi del mondo, ma (lo ricorda lui stesso) il suo talento per la finanza non servirebbe a nulla in una società di cacciatori e raccoglitori, in cui sarebbe con ogni probabilità un peso morto perché non saprebbe cacciare, pescare, o fare alcunché di utile. Quindi ... non si deve pensare che le disuguaglianze tra le persone siano completamente naturali: è la società che mette in luce alcune differenze e ne occulta altre.

Questo significa anche che il programma del capoverso dell'Articolo 3 della Costituzione Italiana ("È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese." – vedi [6]) è possibile e ragionevole, in quanto rifiuta l’assunto che le disuguaglianze tra le persone siano esclusivamente opera della natura, e ritiene possibile correggere l'organizzazione economica e sociale in modo da smussarle, perlomeno.

Qui si va un po' oltre il grande pensatore socialista Léon Blum, e si evita la fallacia naturalistica.

Uno si potrebbe chiedere se solo gli ebrei rischiano di cadervi, e la risposta è ovviamente “no”.

Tariq Ramadan (ne ho già parlato nello stesso post in cui citavo AJ Heschel) ci si butta a pesce, ritenendo che l’Universo sia un Libro con la stessa dignità di quello rivelato (il Corano); l’apologetica cristiana fa spesso ricorso alla nozione di “legge naturale”, che non è altro che la fallacia naturalistica elevata a sistema.

L’ebraismo è l’unico monoteismo che io conosca che non imponga di cadere in questa fallacia; per questo ho ritenuto utile evidenziare chi (dei pochi autori che conosco) vi cade comunque e chi no.

Negli altri due monoteismi la lista di chi non vi cade finisce con il coincidere con quella degli “eretici” o dei “liberi pensatori”.

martedì 25 agosto 2009

Una (triste) barzelletta di Amos Luzzatto

Ho quasi finito il libro di Amos Luzzatto "Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra" (Mursia 2008); il libro è molto interessante, ed il sottotitolo "Memorie ..." è molto appropriato, in quanto mi pare più una raccolta di "materiali per una biografia" che una biografia compiuta - non facile da scrivere in prima persona.

Nel libro, a pagina 153, Amos Luzzatto racconta una barzelletta che aveva già raccontato in URSS nel 1968, e che fa molto pensare.

(quote)

La Radio Televisione sovietica ha bandito un concorso a premi per gli ascoltatori. (...) Una sola domanda: qual è l'organo femminile più importante? Dopo un mese la commissione degli accademici dell'URSS ha esaminato un milione di risposte e ne ha scartate 999.999, tutte sbagliate (dicevano tutte la stessa cosa). Ha poi conferito il premio al compagno Ivan Semjonov, eroe dell'Unione Sovietica, noto stakhanovista, membro del Comitato di Fabbrica di ***, iscritto al Partito dal 1941, il quale ha così risposto: "L'organo femminile più importante è la Sezione femminile del Comitato centrale del Partito Comunista dell'URSS".

(unquote)

La barzelletta fa pensare perché, se nella Mosca del 1968 era trasparente la critica ad un partito che non riusciva a capire a che cosa pensava (!) il popolo, e di cosa avesse bisogno (!!!), nell'Italia del 2009 la situazione è completamente diversa.

Nell'Italia di oggi un simile concorso darebbe gli stessi risultati, ma non perché gli italiani siano particolarmente allupati, bensì perché per molti anni la TV gli ha insegnato a pensare solo a quello.

L'URSS crollò perché il PCUS non capiva i bisogni del popolo, l'Italia potrebbe crollare perché non si è fatto nulla per elevare i bisogni del popolo, e lo si è educato invece ad abbassarli.

Berlusconi è ciò che avrebbero in comune i 999.999 "sconfitti" del concorso.