martedì 25 agosto 2009

Contro "L'etica della memoria" di Avishai Margalit

Un paio d'anni fa ho letto il libro di Avishai Margalit L'etica della memoria (Il Mulino), in cui l'autore distingue tra "relazioni spesse" e "relazioni sottili", e tra "etica" e "morale".

Una "relazione sottile" è una relazione interpersonale motivata esclusivamente dall'essere i partecipanti esseri umani, mentre una "relazione spessa" è una relazione in cui delle persone condividono qualcosa di più.

Le relazioni "spesse" presumono l'impiego della memoria, che consente di ricordare ciò che ogni persona significa per l'altra, ed il bene (od il male, non voglia il cielo) che si sono scambiati; invece una relazione "sottile" non la esige, in quanto basta il volto dell'altro ad elicitare la corretta risposta dall'altro.

Margalit distingue tra "etica" e "morale": l'etica regolerebbe il comportamento all'interno delle relazioni "spesse", mentre la "morale" all'interno delle relazioni sottili; per cui, ad esempio, l'etica vieterebbe di "tradire" il partner di una relazione spessa, mentre la morale di violare la dignità altrui.

All'interno di una relazione "spessa" la morale costituisce il minimo etico: un marito, come non può picchiare uno sconosciuto, non può picchiare la moglie - ma sarebbe ben triste un matrimonio in cui marito e moglie si limitassero a rispettarsi come due estranei che camminano sullo stesso marciapiedi.

Di contro, l'etica non consente di violare la morale: il nepotismo, ovvero il favorire un familiare chiaramente meno dotato di un estraneo, non rispetta la morale, ed è uno degli elementi di quello che fu chiamato "familismo amorale" da Edward Banfield.

Questa distinzione di Margalit tra "etica delle relazioni spesse" e "morale delle relazioni sottili" è interessante, ma rozza, ed il suo autore ne trae conclusioni che non approvo.

La rozzezza della distinzione nasce dal fatto che lui non tiene conto del fatto che esistono relazioni in cui la memoria è importante (tant'è vero che in alcuni casi la legge impone di conservare i documenti che incarnano questa memoria, come le cartelle cliniche e le scritture contabili), ma a cui non sono associati sentimenti particolari: la relazione del paziente con il suo medico, del cliente con la sua banca, dell'utente con la società che gli somministra acqua, luce o gas, dell'abbonato con il teatro o la compagnia di trasporti, del lavoratore col datore di lavoro, del cliente col fornitore, del socio con la sua associazione, ecc.

Sono estremamente rare le relazioni umane in cui la memoria non ha alcuna importanza, e sono relazioni occasionali che si cerca sempre di trasformare in relazioni continuative, ovvero in cui è indispensabile la memoria. Per esempio, al cliente che mette per la prima volta piede in un supermercato si vende sì la merce, ma di solito gli si offre anche una carta di fidelizzazione - ovvero di memorizzare i suoi dati in un computer, nonché i suoi acquisti - in cambio di alcuni vantaggi significativi.

Quindi ... vacilla il paragone proposto da Margalit tra "relazioni spesse" e particolarismo, "relazioni sottili" ed universalismo.

Mi spiego meglio: Margalit dice che il cristianesimo cerca di unire l'umanità in una comunità unita da un'unica grande "relazione spessa", in cui l'essere umani è sufficiente per creare una memoria condivisa ed attivare sentimenti di mutuo aiuto; di contro, l'ebraismo invece vuol mantenere la differenza tra la "relazione spessa" all'interno del _klal Yisrael = collettività ebraica_, e la "relazione sottile" con il resto dell'umanità.

Margalit, pur essendo un ebreo "laico", riprende l'argomentazione dell'apologetica ebraica tradizionale secondo cui l'obbiettivo del cristianesimo è una pericolosa illusione, un voler realizzare l'era messianica in un mondo che ad essa non è preparato.

In realtà, le relazioni in cui la memoria è importante stanno diventando tanto pervasive che stanno nascendo delle leggi sulla privacy per impedire a chi detiene questa memoria di condividerla con terzi (magari in un altro continente), consentendo loro di entrare in una "relazione spessa" con migliaia di persone - che non la desiderano.

Questo solo fatto smentisce l'opinione di Margalit secondo cui è impossibile una condivisione della memoria a livello mondiale: è invece un fenomeno tanto possibile e naturale che bisogna contrastarlo, o meglio, impedire che faccia danno!

Margalit collega la memoria alla cura: lo scopo della memoria è l'aiutare il partner di una relazione spessa a prendersi cura dell'altro, in quanto consente di identificare i meriti ed i bisogni dell'altro. Per Margalit creare una "relazione spessa" che includa l'intera umanità è impossibile, perché è realisticamente impossibile prendersi cura di tutte le persone.

Ma nemmeno in una piccola comunità di poche persone tutti si prendono cura direttamente di tutti: ci si spartisce i compiti; chi è più bravo a prendersi cura lo fa, e chi è meno bravo lavora per consentire ai più bravi di dedicarsi interamente alla cura di chi ne ha bisogno.

È lo stesso Margalit a citare l'argomento della divisione del lavoro, a cui ricorrono anche famiglie di pochi nipoti che devono accudire i loro nonni; vi ricorrono certamente i circa 13 milioni di ebrei del mondo per aiutarsi a vicenda, e vi potrebbe tranquillamente ricorrere l'umanità intera se solo decidesse di farlo - sarebbe il lato positivo della globalizzazione.

Quando si parla di "memoria" ed "ebrei", di solito si parla anche di "Olocausto". Margalit ritiene che, poiché una relazione "spessa", ovvero in cui conti la memoria, non possa estendersi all'umanità intera, ma limitarsi soltanto a collettività limitate, la memoria dell'Olocausto non possa avere valore universale.

Secondo lui, essa può riguardare soltanto le collettività coinvolte nell'evento in quanto da esse provenivano le vittime od i carnefici (oppure i salvatori - Margalit di loro si è scordato).

Universalizzare la memoria dell'Olocausto o di altre atrocità sociali per lui è vuoto di significato e controproducente, anche perché le atrocità compiute dal cosiddetto "Occidente" sono meglio documentate di quelle commesse dagli altri, e quindi si finirebbe col costringere l'Occidente a subire un confronto morale da cui uscirebbe sempre perdente.

Margalit qui dimentica le analisi di chi ha mostrato come l'Olocausto sia stato reso possibile proprio dalla modernità, che ha fornito le teorie e le pratiche indispensabili ad esso, e pertanto è inevitabile che l'Occidente industrializzato appaia l'unico possibile colpevole di un simile misfatto.

Inoltre, Margalit giunge a conclusioni analoghe a quelle di alcune frange dell'ebraismo (a cui non appartiene certo il direttore dello Yad Vashem, e vi spiegherò poi perché) che tendono a ritenere la Shoah un problema esclusivamente ebraico, una delle conseguenze paradossali dell'Elezione d'Israele.

Per queste frange, essendo gli ebrei ontologicamente diversi dagli altri popoli, l'odio che gli altri popoli nutrono nei loro confronti è incomprensibile con categorie umane ed incomparabile con altri odi tra gruppi diversi. Non ha senso quindi che le vittime ebree della Shoah siano commemorate da non-ebrei, perché questi non hanno niente in comune con esse.

Quest'analisi ha il difetto di bloccare l'indagine scientifica, la quale ha invece mostrato che la Shoah è paragonabile ai genocidi degli armeni, degli zingari (tentato anche questo dai nazisti), dei tutsi in Ruanda, ed a quello che sta accadendo in Darfur (che ha suscitato l'indignazione anche del direttore dello Yad Vashem) - e tutte queste cose sono alcune delle possibili estreme conseguenze della preferenza per il proprio gruppo sociale, che ha per corollario il disprezzare gli altri gruppi sociali.

Quindi, la memoria dell'Olocausto e di altri genocidi ha significato universale: tutti possono essere indotti a partecipare ad un genocidio, indipendentemente dai precedenti rapporti con le vittime designate. E questi eventi sono lezioni che non devono ripetersi.

Quando si insegna alle persone di distinguere tra la "relazione spessa" con il proprio collettivo, e la "relazione sottile" con il resto dell'umanità, il risultato non è creare delle persone che sanno essere sia "leali" (verso il collettivo) che "umane", ma creare una situazione di cui vi parlo dopo avervi tradotto quest'articolo:

(quote)

Un esperto: i giovani ebrei americani pensano che identificarsi col loro gruppo etnico sia "non kasher"

Il collegamento dei giovani ebrei americani con il popolo ebraico sta sempre declinando poiché sono indotti a credere che identificarsi con il loro gruppo etnico sia "non kasher", ha detto uno dei maggiori esperti di storia ebraica americana questa settimana [nei primi giorni del 2007, ndr].

"Nei loro campus universitari, identificarsi con gli Ebrei come popolo, il che non è la stessa cosa che identificarsi con l'Ebraismo, non è considerato kasher", ha detto il prof. Jack Wertheimer, che funge anche da rettore del Jewish Theological Center di New York. "Solo le persone di colore sono autorizzate ad identificarsi con i loro compagni di etnia, mentre gli americani bianchi non sono autorizzati a partecipare a questo tipo di comportamento".

Parlando questa settimana ad una conferenza all'Università Ebraica [di Gerusalemme, ndr], Wertheimer ha detto che gli Ebrei "stanno gravitando verso l'universalismo a causa del loro disagio verso il particolarismo". Ed ha precisato che le organizzazioni ebraiche stanno diventando sempre più complici di questo processo, citando il cambiamento dello slogan delle United Jewish Communities (UJC), che è pian piano divenuto da "Noi siamo una sola cosa" a "Vivete con generosità" - il loro nuovo motto non indica chi deve ricevere il frutto della generosità dei filantropi.

"Le organizzazioni ebraiche, invece di promuovere l'idea del prendersi cura del popolo ebraico, hanno attenuato quest'idea, forse perché loro conoscono il loro mercato e sanno quello che si può vendervi", ha detto.

Wertheimer si è inoltre lamentato dei tentativi di universalizzare l'Ebraismo, cosicché valori come tiqqun 'olam (emendare il mondo) e kol Yisrael 'arevim zeh lazeh (tutto Israele garantisce l'uno per l'altro) non si concentrano più sulla comunità ebraica. Fare pressione per le vittime del Darfur o pulire i fiumi americani, ha detto, hanno ora la precedenza sul sostegno alle istituzioni comunitarie ebraiche perché c'è ora una "diminuzione dell'interesse" per i propri compagni ebrei.

Wertheimer stava parlando ad una sessione sull'identità ebraica ed il multiculturalismo, parte di una conferenza di tre giorni all'Università Ebraica in onore del Prof. Gideon Shimoni, che per motivi di età ha recentemente lasciato l'Istituto Avraham Harman sull'Ebraismo Contemporaneo.


Nella stessa sessione, il Prof. Michael Brown dell'Università di York a Toronto ha parlato a proposito della comunità ebraica canadese e dell'impatto del multiculturalismo, che è divenuto nel 1971 politica ufficiale del governo e da allora ha indebolito il senso di lealtà di gruppo tra alcuni ebrei del paese.

"È possibile", ha detto Brown, "che alla fine il multiculturalismo sarà servito ad indebolire l'autonomia e l'unicità del gruppo ebraico in Canada".

(unquote)

La cosa più interessante dal mio punto di vista è questo punto del ragionamento del Prof. Wertheimer: il fatto che l'UJC non dica più agli ebrei di beneficiare esclusivamente le organizzazioni filantropiche ebraiche (che comunque, grazie ai loro meriti, continuano a raccogliere notevoli somme, e spesso le donano anche a non-ebrei), ma di essere generosi in generale verso chi ne ha più bisogno viene considerato non un dare esempio di "moralità", ovvero di dedizione anche a coloro a cui si è legati solo da "relazioni sottili", ma come l'espressione di un disagio nei confronti del collettivo ebraico.

Allo stesso modo, fare pressione per il Darfur oppure impegnarsi per l'ambiente non è visto come una meritoria presa di coscienza che tutti gli uomini sono creati a immagine di D%o o come accettazione della responsabilità dell'uomo verso la natura, corollario della prima biblica mitzwah "Pru urevu" (crescete e moltiplicatevi): vengono ritenuti risorse sottratte alle esigenze del collettivo ebraico.

E questi sono i ragionamenti del Chief Academic Officer del Jewish Theological Seminary di New York, una delle migliori scuole ebraiche del mondo. Questi smentisce tranquillamente Avishai Margalit, il quale non si rende conto che ufficializzare la distinzione fra "etica delle relazioni spesse" e "morale delle relazioni sottili" significa autorizzare i capi di un collettivo, qualunque esso sia (gli ebrei in questo non sono peggiori degli altri), ad interpretare ogni impegno nel campo delle "relazioni sottili" come privazione di risorse verso coloro a cui si è legati da una "relazione spessa".

La conseguenza di queste pressioni è che le "relazioni sottili" si assottigliano e spezzano, e l'unica relazione che veramente conta rimane quella "spessa" - supposto che la distinzione tra "relazioni sottili" e "spesse" abbia senso in un mondo come il nostro, e non sia semplicemente un otre nuovo per il vino vecchio.

Un'ultima cosa cosa che mi permetto di osservare del libro di Avishai Margalit è che la sua contrapposizione tra il "progetto cristiano" ed il "progetto ebraico" non solo si basa su una contrapposizione tra "relazioni sottili" e "relazioni spesse" che secondo me è sbagliata, ma ignora che molti ebrei sono fortemente universalisti (non è solo il Prof. Jack Wertheimer a lagnarsene - e molti altri ebrei, ovviamente, se ne rallegrano), e che molti cristiani non sono capaci di salutare quelli della loro stessa parrocchia che militano in movimenti religiosi su posizioni opposte al proprio.

Sarebbe stato meglio designare le due posizioni come "progetto Ben Azzai" e "progetto Maimonide", prendendo così atto che questi "progetti" hanno i loro sostenitori in ogni gruppo umano.

Ben Azzai non solo riassunse la Torah nel versetto di Genesi 5:1, che dice: "Questo è il libro delle generazioni dell'uomo. Nel giorno in cui D%o creò l'uomo, ad immagine di D%o lo creò", ma interpretava Levitico 19:18, che dice: "Ed amerai il prossimo tuo come te stesso", nel senso che il "prossimo" di cui qui si parla è l'essere umano in generale.

Maimonide invece - e l'halakhah è dalla sua parte - sostiene che il "prossimo" in questione è solo l'ebreo. Si fa la carità ai non-ebrei, ma solo per motivi di superiore opportunità, non perché esista un precetto biblico in merito.

martedì 18 agosto 2009

Un memo di Theodor Meron

Dalla pagina 99, inizio del Capitolo 4, del libro The Accidental Empire di Gershom Gorenberg; prima vi riporto il testo in inglese, poi la traduzione.

(quote)

Jerusalem, 13 Elul, 5727
September 18, 1967


Top Secret

To: Mr. Adi Yafeh, Political Secretary of the Prime Minister
From: Legal Counsel of the Foreign Ministry
Re: Settlement in the Administered Territories

As per your request ... I hereby provide you a copy of my memorandum of September 14, 1967, which I presented to the Foreign Minister. My conclusion is that civilian settlement in the administered territories contravenes the explicit provisions of the Fourth Geneva Convention.

Sincerely,
T. Meron

(unquote)

Traduciamo:

(quote)

Gerusalemme, 13 Elul, 5727
18 Settembre 1967


Top Secret

A: Sig. Adi Yafeh, Segretario politico del Primo Ministro
Da: Consulente giuridico del Ministero degli Esteri
Re: Insediamento nei territori amministrati

Come avete chiesto ... vi accludo copia del mio memo del 14 Settembre 1967, che ho presentato al Ministro degli Esteri. La mia conclusione è che l'insediamento di civili nei territori amministrati va contro l'esplicito dettato della Quarta Convenzione di Ginevra.

Distinti saluti,
T. Meron

Come si premura di informarci Gershom Gorenberg, Theodor Meron, l'autore del memo e della lettera citata, è nato in Polonia nel 1930, ha passato quattro anni in un campo di lavoro nazista a Czestochowa, dopo aver fatto 'aliyah ha ricuperato gli anni di scuola persi conseguendo una laurea in legge all'Università ebraica, un dottorato ad Harvard, e (ma questo dettaglio l'ho saputo da Wikipedia) un diploma in diritto internazionale pubblico a Cambridge.


Cos'erano i crimini di guerra lui lo imparò sulla sua pelle da ragazzo; e dopo aver scritto quel parere legale avrebbe lavorato per altri dieci anni al Ministero degli Esteri israeliano, per diventare poi professore di diritto all'Università di New York, consulente per il diritto internazionale al Dipartimento di Stato USA tra il 2000 ed il 2001, per diventare poi tra il 2002 ed il 2005 presidente del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia. Ora è membro della Corte d'Appello del Tribunale Penale per il Ruanda - e nel 2009 è stato eletto all'Accademia Americana di Arti e Scienze.


Non era uno scribacchino l'autore di quel parere legale. Quando l'altro ieri ho letto che alcuni ministri israeliani vogliono rendere Homesh (un avamposto evacuato da Sharon) un insediamento "legale", non ho potuto fare a meno di ridere.


Ciao.

martedì 4 agosto 2009

Leo Strauss Neged/Versus Tariq Ramadan

[1] http://www.bol.it/libri/riforma-radicale.-Islam/Tariq-Ramadan/ea978881702491/

[2] http://www.bol.it/libri/Essere-musulmano-europeo/Tariq-Ramadan/ea978888137040/

[3] http://www.archive.org/download/HeideggerAndStraussOnNietzscheAndModernity/Strauss-ModernitysThreeWaves.pdf

[4] http://www.bol.it/libri/Israele-eco-di-eternita/Abraham-Joshua-Heschel/ea978883990929/

Ho la pessima abitudine di recensire i libri prima di averli terminati, e quindi queste osservazioni sono solo provvisorie.

Tariq Ramadan in [1] riprende ed approfondisce il discorso già esposto in [2], e che si può riassumere in questo brano di [1], pagina 142:

(quote)

Darsi i mezzi di una riforma del cambiamento, di un'etica anticipatrice che accompagna e integra l'evoluzione dei saperi, richiede una revisione del dispositivo classico dei fondamenti del diritto e della giurisprudenza. Il primo prerequisito consiste nello stabilire chiaramente che essi non sono solo le fonti scritturali, ma anche il Libro dell'Universo e, insieme, tutte le scienze interessate a studiarlo e a migliorare l'azione degli esseri umani nei diversi ambiti e nei particolari contesti sociali. Quindi la classificazione che si limitava a stabilire una lista delle fonti del diritto (Corano, Sunna, ijma' [consenso], qiyas [analogia], 'urf [consuetudine], istihsan [preferenza giuridica], istislah [interesse pubblico], ecc.) attribuendo un posto quasi esclusivo ai rapporti con i testi (dato che il riferimento al costume e all'interesse comune erano considerati soprattutto dei supporti alla comprensione dei testi stessi), secondo noi deve essere rivista e riconsiderata alla luce delle moderne realtà. Su un piano prettamente teorico, e fondamentale, abbiamo visto che l'Universo si impone all'intelligenza come un Libro, con delle regole, delle leggi, dei principi, una semantica, una grammatica e dei segni specifici e che, di fatto, come spesso suggerito dalla stessa Rivelazione, è necessario accostarsi ai due Libri in maniera speculare e complementare.

(unquote)

Non ho cominciato a leggere Tariq Ramadan per criticarlo, però una prima critica che gli si può rivolgere è che, se lui ha scritto due libri a distanza di nove anni ([1] è del 2008, [2] del 1999) che denunziano la medesima situazione con argomenti molto simili e proponendo i medesimi rimedi, vuol dire che è assai improbabile che il mondo islamico si risollevi nell'arco di una generazione - con mio gran dispiacere.

Tariq Ramadan meriterebbe la cittadinanza italiana, visto che sembra destinato a condividere il destino dei molti intellettuali italiani che compiangono lo stato miserando del proprio paese senza poterci far nulla.

La seconda e più radicale critica si ispira al politologo ebreo Leo Strauss, di cui potete leggere in [3] il suo fondamentale saggio "Three Waves of Modernity".

Liofilizzando, Strauss dice che la filosofia (politica) moderna è iniziata con Machiavelli, il quale abbandona il presupposto del pensiero politico antico secondo cui l'uomo fa parte di un ordine naturale immutabile e giusto.

Basta dir questo per far capire che Leo Strauss classificherebbe il pensiero di Tariq Ramadan come "antico". Potremmo dire di più: l'obbiettivo di Tariq Ramadan si ritrova già, almeno a giudicare dall'Enciclopedia Garzanti della Filosofia, edizione 1983, nella Scolastica, sia europea che araba, che si era posta l'obbiettivo di superare la cesura tra le scienze del divino e quelle del secolo (rappresentate, in quell'epoca, da Arisototele).

Non mi pare una gran dimostrazione di modernità voler riprendere e completare il lavoro dei filosofi/falasifa del 12°-15° Secolo EV - e, se veramente è ciò di cui ha bisogno il mondo islamico, povero lui!

Oltretutto, Tariq Ramadan non si è probabilmente reso conto che il suo progetto si scontra con la cosiddetta "Legge di Hume": da una proposizione col verbo "essere" non si può dedurre una col verbo "dovere".

In una parola: dallo studio delle scienze non si possono dedurre principi etici. Il primo dei due Libri della Rivelazione secondo Tariq Ramadan, quello dell'Universo, si rivela quindi muto per il moralista ed il giurista.

Se Tariq Ramadan è convinto (insieme con alcuni filosofi morali occidentali) che è possibile smontare la "Ghigliottina di Hume", gli conviene farlo prima di portare avanti il suo progetto.

Vorrei concludere con una piccola digressione; citiamo Leo Strauss (terzo foglio di [3], pagina 86 del libro fotocopiato):

(quote)

Per giudicare correttamente le dottrine di Machiavelli, dobbiamo renderci conto che nel punto cruciale sono d'accordo la filosofia classica e la Bibbia, Atene e Gerusalemme, ad onta delle profonde differenze ed anche dell'antagonismo tra Atene e Gerusalemme. Secondo la Bibbia, l'uomo è creato ad immagine di Dio; riceve la sovranità su tutte le creature terrestri, ma non su tutto il creato; viene messo in un giardino perché lo lavori e lo custodisca; viene messo al suo posto; la rettitudine è l'obbedienza all'ordine divinamente costituito, così come nel pensiero classico la giustizia è l'adeguarsi all'ordine naturale; al riconoscimento del caso elusivo corrisponde il riconoscimento dell'imperscrutabile provvidenza.

(unquote)

Questo brano va confrontato con quest'altro a pagina 114 di [4]:

(quote)

Forse il significato del peccato del primo uomo consiste nel fatto che egli si è rivolto alla natura per conoscere il bene e il male. Ma il destino dell'uomo è imparare dalla storia il significato del bene e del male.

(unquote)

Se Abraham Joshua Heschel ha ragione, il pensiero ebraico non può essere considerato "antico" in nessuna sua fase, perché non è dalla natura che gli ebrei hanno voluto imparare a vivere.

Non so se Heschel e Strauss abbiano mai discusso il punto, e chi abbia prevalso - è però un punto molto interessante.

lunedì 29 giugno 2009

SNAFU (Situation Normal, All things F***ed Up)

Comparing military ranks across armed forces may be difficult, as most countries in the world have different ranks for the Army and the Navy (to begin with); when the comparison becomes cross-national, the difficulty increases, as even countries sharing the same language (like the UK and the US) may have different rank names.

The situation is so dire that the NATO, wich is a military alliance among 28 countries, had to issue the STANAG (STANdardization AGreement) 2116, in order to make military ranks & rates comparable, and the members' armed forces interoperable.

If you look at this page, which just compares UK and US military ranks, you'll see that the STANAG 2116 has been far more successful for officiers than for enlisted men - there is still a veritable "balagan" (Hebrew term for "chaos") there.

That's why I titled this blog post "SNAFU", a popular WW2 acronym for such state of affairs.

Italy has 4 armed forces (the Army, the Air Force, the Navy and the Carabinieri - sort of military police) and 2 police forces (the Guardia di Finanza, a military corps, and the Polizia di Stato, which has dropped military status in 1981), with different rank naming systems; therefore a translator who has to convert an Israeli military rank into its Italian equivalent may find himself in deep trouble.

I'm trying to help him by combining info obtained from these webpages:

Here you can see the result table - with just a column devoted to Israeli military ranks, and six devoted to the plethora of Italian military and police corps :-)

Enjoy the reading, and all feedback are welcome.

martedì 16 giugno 2009

Overthrowing Geography

I just bought the book because I wanted to learn the history of Tel Aviv-Jaffa, but the book proved to be enlightening from the first pages.

It also gives powerful arguments against the opposers of Turkey's joining the European Union, as it shows that Turkey is a nation no less modern than the 27 EU members, and Islam and modernity can match.

(quote)

From Mark Levine’s book Overthrowing Geography. Jaffa, Tel Aviv, and the Struggle for Palestine 1880-1948, pages 8-10.

[page 8]

Indeed, as Pomeranz argues, Europe was neither the center nor even the dominant power in the world economy until the nineteenth century (China held that distinction), [20] while closer to home, intra-Ottoman trade was more valuable than trade with Europe until the same period. [21] The teleological narrative of Europe as the prime mover of modernity and everyone else as responding to it must therefore be discarded in favor of constructing a narrative of a polycentric world with long-standing interconnections and no dominant center until the nineteenth century, when a combination of luck, geography (its location vis-à-vis the New World), and favorable resource stocks, especially coal, enabled the completion of a transformation from competitive to imperial capitalism that Europe alone was fortuitously positioned to make. [22] This process necessitated a universalization of both the economic and the ideological aspects of modernity, and in so doing it constituted the “point of departure for the conquest of the world”. [23]

Although considerations of space prohibit a detailed rehearsal of the debates over and most recent scholarship on the historiography of the late Ottoman Empire, an analysis of Palestine must be situated within larger discussions of the nature and scope of Ottoman state modernization and centralization policies – which took place “under conditions of inter-imperialist rivalry,” particularly after the imposition of the Ottoman Public Debt Administration in 1882, yet maintained a fair degree of autonomy and agency [24] – and their impact on the country’s economic, cultural, and political development. Only then can we understand how and why, with the imposition of the British rule, a different kind of modernity emerged in Palestine, one that turned Jaffa into a space of nonmodernity vis-à-vis the increasingly Jewish landscape surrounding it.

If the Ottomans themselves understood their power to have begun to wane in the late seventeenth century, [25] the empire was considered one of Europe’s “best colonies” by the late eighteenth century, an attitude that was naturally translated into European politics toward and scholarship on the empire even after its demise. Any attempt to refashion a less Eurocentric historiography of the late Ottoman Levant must therefore escape the well-laid trap of colonial rationality and instead decolonize Ottoman history by exploring the roots and dynamics of its many political economies vis-à-vis their own intentionalities and rationalities, which are much richer and more authentic than their depiction as pale copies of the European master narrative suggests. [26]

A more complex and accurate narrative would begin by understanding that far from being a period of decline, the sixteenth through eighteenth centuries were a time of the institutionalization and transformation of the

[page 9]

empire, during which it was affected by many of the same processes that produced such dramatic changes in (at least northern) Europe. [27] Thus during the pivotal nineteenth century, although for very different and often contradictory reasons, both the European powers and the Ottoman elite sought to “modernize”, “centralize”, “individualize”, and thus strengthen the Ottoman state, [28] which produced a set of institutions that made it more powerful, rationalized, positivistic, specialized, liberal, and capable of imposing its will on its subject than ever before. [29]

Yet, “rather than a wholesale importation of European modes of political and social organization, Ottoman modernity involved a process of mediation and translation to adapt new ideas from the West to radically different settings across the Empire.” [30] One of the primary means to achieve this modernity was through the establishment of a “new” land regime (in 1858), and the tax revenues it would produce, whose goal was to establish title to every piece of productive land in the empire and in so doing establish a one-to-one correspondence between a piece of property and the person(s) paying taxes on it. If such a dynamic held in the more peripheral districts east of the Jordan, in the Jaffa region – one of the most productive in Palestine if not the empire – this Ottoman modernism would profoundly shape the region’s subsequent history. [31]

In fact, the late Ottoman state consciously imagined and portrayed itself in quite modern terms. Yet “modern” did not have to mean “European” (it often meant just plain “new”). [32] As Boutros (Butrus) Abu-Manneh argues, the well-known Hatt-ı Şerif of Gülhane, generally understood as inaugurating the Tanzimat period, can be interpreted as being grounded almost entirely in Ottoman-Islamic (and perhaps even Sufi) sources. Its resonance with “Western” or “European” modernizing discourses, at least until the second half of the century, was thus one of sympathy and correspondence rather than direct influence and imitation. [33]

In this sense, the “revival and regeneration of religion and state, land and community” could be interpreted as helping to usher in (or in some places, including perhaps Jaffa, solidify) a Levantine modernity – one in which “security of life, honor and property”, public trials, and the extension of basic rights to all subjects could have created a noncolonial liberal capitalism if they had the time to develop. [34] On the other hand, as the century wore on, the Sublime Porte increasingly considered itself a “modern member of the civilized community of nations” and the “committed advocate of reform in the Orient”; it even desired to emulate the other “civilized” nations by sending colonists to the “dark continent” to “bring the light of Islam into savage regions.” [35]

[page 10]

In this vein, religious law, or fiqh, was updated to the “needs of modern times” and deployed to “civilize” the provinces, while in Palestine and other Arab provinces the state pursued an educational “mission civilisatrice” in which the sons of prominent Jerusalem families (among others) were enrolled in the new schools that used the “splendor of the spectacle” of Ottoman modernity to inculcate the “blessings of civilization to the Arabs … still in a state of nomadism and savagery.” [36] Also of particular relevance to the Palestinian context – and indicative of the consequences of the modernity deployed by the state – is that while the Porte went to great lengths to prevent acquisition of land by “foreign” Muslims in key regions such as the Hejaz, it supported (or at least did little to prevent) such sales to Europeans, particularly Jews, in the Holy Land. [37]

In short, late-nineteenth-century Ottoman reforms often embodied an order that bore significant similarities to the colonial regimes that would replace the Ottoman state decades later. [38] But even as the Porte desired to join the European colonial club as a partner, by the Young Turk revolution in 1908 – one year before the establishment of Tel Aviv – the imbalance of power between the empire and Europe was such that it could only be understood as taking place “in a colonial context”, with the empire on the losing end of the equation. [39] Yet however negatively modern and deleterious for its Palestinian subjects Ottoman political discourses became during the nineteenth century, in fin-de-siècle Jaffa at least a specifically noncolonial modernity seems to have developed that in turn created a specifically Levantine “third space” in which incommensurable subcultures were, for a time, spatially reconciled. [40] Put another way, a unique balance of political and economic power and culture existed in the region that produced a cosmopolitan Levantine-Mediterranean culture that for several decades was free of the more pernicious effects of colonialism, nationalism, and even capitalism while retaining the hybridity and newness that have always defined modernity – and the modern city. [41]

[…]

[At last I decided against copying the notes, as they’re of little value to those who haven’t got the whole book and can’t therefore read the bibliography as well]

(unquote)

sabato 16 maggio 2009

From Theodor Herzl's "Altneuland"

Zionism is often depicted as a "racist ideology", by two kinds of people:
  1. Arab nationalists who haven't been able to come to terms with Israel's existence yet - and slander it;
  2. The Italian far-Rightists who love Israel because they are convinced that it's as racist as they are, thus proving their ignorant bigotry.

Israel is far from perfect, and its minorities have a lot to complain, but I'd like to quote a few paragraphs from Theodor Herzl's visionary work "Altneuland", to show that Zionism isn't racism.

The title "Altneuland" was inspired by the "Altneuschul" in Josefov, Prague, and was translated into Hebrew by Nahum Sokolov as "Tel Aviv". Sokolov said he chose this phrase because Herzl's book told the story of an ancient ruin (Tel) blossoming like a flower in spring (Aviv).

Sorry for quoting an English translation, but I can't read German, and this translation was published in Haifa in 1960 - so I can assume it's faithful to Herzl's thought, as it was interpreted in Israel in the late 1950s and early 1960s.

Enjoy your reading, from Altneuland, Book 3, Chapter 4:

(Alt...land)

"... But the lesson of Rahaline [in Ireland] was not forgotten. It was preserved in books, and when we led our people back to our beloved soil of Palestine, we created thousands of Rahalines. One Vandaleur [Rahaline's landlord and initiator] was not strong enough - and not reliable enough.

A great and powerful organization was required. That organization is our New Society, the landlord that has provided you with the land and the tools to which you owe your present prosperity. Not that the New Society has created all this out of nothing, out of itself. It has come from the brains of its leaders and the pockets of its founders. The new Society is founded on an idea which is the common product of all civilized nations.

Do you understand now, dear friends, what I mean? It would be unethical for us to exclude any man, whatever his race or religion, from our achievements. We are standing on the shoulders of the other civilized nations. If a member of one of them wishes to join us, if he accepts the duties of our society, he must also enjoy all its rights. What we have, we owe to the work of these who came before us, and it is only right that we pay our debt. There is only one way to do this: tolerance to the utmost! Our slogan must be, now and always: Man, thou art my brother!"

(...)

"Here then is your answer. What was right so far, is right today and for the future. The more men come here to work, the better off we shall all be. Not only from altruism should we cry: Man, thou art my brother! - but from self-interest too we should tell him: Brother, thou art welcome! - The eldest among you know what this village was like twenty years ago, all empty and desolate. The first settlers took the best land. The next got second-best, but still prospered. The later they came, the worse was the land they got, and yet today it all bears well. Stones were cleared, swamps drained, because where there is a settlement already in existence even inferior soil attracts newcomers. And today Newville is a garden, a lovely garden, where you live a good life. but all your orchards and fields would be worth nothing, they would wither, if liberal thinking, generosity, charity and love of mankind were to dry up in your hearts! Those must be cherished, those must flourish in your midst. And because I know they do, I cry: Hedad [Hooray] for Newville!"

(...Neuland)

Another interesting quotation well expressing Herzl's thought, can be found in Book 3, Chapter 3:

(Alt...land)

"... It is no longer the rich that make the laws and prescribe the way to think: the people now make the laws and everybody can think as he likes. Mayors are no longer chosen for their wealth, the post is no longer awarded as a premium for business instinct, but we choose men for their decency and efficiency. So of course, under this new dispensation, the Geyers must flatter the instinct of the mob. They must find a theory to serve the immediate advantage of the people - or at least what the people regard as their advantage. That's why he has devised his new slogan - against the stranger in our midst. He doesn't want Gentiles to be accepted as members of the New Society! What he thinks is: the fewer to share the banquet, the more for each. And do you believe that this is to your immediate advantage? It is not, friends; very far from it. The land would be impoveirshed, it would be ruined if you adopted this idiotic and narrow-minded policy. We stand and fall by the principle that anybody who has served the New Society for two years, be he Jew or Genitle, white or yellow or black, becomes a member - always supposing he has proved himself during that time.

And that is why I tell you: stand by the principles that have made us great: Liberalism, Tolerance, Love of Mankind! Only the will Zion be truly Zion. You will soon elect a delegate to Congress. Do not choose a man who thinks only of the immediate advantage, but one who takes longer views. If you elect a Geyer man, you are not worthy of having the sun of our sacred land shine upon you! ..."

(...Neuland)

Herzl knew that not even his utopian "New Society" would have been able to eradicate "tribalism", so he described a political battle between the supporters of "universalism" (like Mr. Steineck, whose speech was quoted in the second passage, and David Littwak, who spoke in the first passage) and Geyer, an opportunistic rabbi turned into a tribalist demagogue, in order to provide his [Herzl's] follwers with the weapons to fight this evil spirit.

Herzl's vision can be criticized, as he colonially distinguished between "civilized nations" and the rest of the world - but there is no reason to persevere in this baseless distinction, as we know that the many cultures of the world compose a single civilization.

The same can be said of the Article 3 of the Italian Constitution: although it states that all "citizens" are equal before the law, the Constitutional Court has always maintained it must be construed as "all humans are equal before the law as regards basic human rights". So we may atone for our [Italian] Constituents' oversight.

With these quotations of Theodor Zeev Herzl's, I can say that racism is unworthy of his vision. It's a pity that lots of people across the world have forgotten that.

Something Israelis should especially remember is (from Book 3, Chapter 6):

(Alt...land)

... Tolerance can only thrive when it is reciprocal, and when the Jews here in Palestine proved tolerant towards their minority, they enjoyed the same tolerance all over the world.

(...Neuland)

Herzl was prophetical: his words are topical now, in 2009, even though they were written in 1902. Here is an online English translation of Altneuland, so you can check for yourself.