martedì 25 agosto 2009

Contro "L'etica della memoria" di Avishai Margalit

Un paio d'anni fa ho letto il libro di Avishai Margalit L'etica della memoria (Il Mulino), in cui l'autore distingue tra "relazioni spesse" e "relazioni sottili", e tra "etica" e "morale".

Una "relazione sottile" è una relazione interpersonale motivata esclusivamente dall'essere i partecipanti esseri umani, mentre una "relazione spessa" è una relazione in cui delle persone condividono qualcosa di più.

Le relazioni "spesse" presumono l'impiego della memoria, che consente di ricordare ciò che ogni persona significa per l'altra, ed il bene (od il male, non voglia il cielo) che si sono scambiati; invece una relazione "sottile" non la esige, in quanto basta il volto dell'altro ad elicitare la corretta risposta dall'altro.

Margalit distingue tra "etica" e "morale": l'etica regolerebbe il comportamento all'interno delle relazioni "spesse", mentre la "morale" all'interno delle relazioni sottili; per cui, ad esempio, l'etica vieterebbe di "tradire" il partner di una relazione spessa, mentre la morale di violare la dignità altrui.

All'interno di una relazione "spessa" la morale costituisce il minimo etico: un marito, come non può picchiare uno sconosciuto, non può picchiare la moglie - ma sarebbe ben triste un matrimonio in cui marito e moglie si limitassero a rispettarsi come due estranei che camminano sullo stesso marciapiedi.

Di contro, l'etica non consente di violare la morale: il nepotismo, ovvero il favorire un familiare chiaramente meno dotato di un estraneo, non rispetta la morale, ed è uno degli elementi di quello che fu chiamato "familismo amorale" da Edward Banfield.

Questa distinzione di Margalit tra "etica delle relazioni spesse" e "morale delle relazioni sottili" è interessante, ma rozza, ed il suo autore ne trae conclusioni che non approvo.

La rozzezza della distinzione nasce dal fatto che lui non tiene conto del fatto che esistono relazioni in cui la memoria è importante (tant'è vero che in alcuni casi la legge impone di conservare i documenti che incarnano questa memoria, come le cartelle cliniche e le scritture contabili), ma a cui non sono associati sentimenti particolari: la relazione del paziente con il suo medico, del cliente con la sua banca, dell'utente con la società che gli somministra acqua, luce o gas, dell'abbonato con il teatro o la compagnia di trasporti, del lavoratore col datore di lavoro, del cliente col fornitore, del socio con la sua associazione, ecc.

Sono estremamente rare le relazioni umane in cui la memoria non ha alcuna importanza, e sono relazioni occasionali che si cerca sempre di trasformare in relazioni continuative, ovvero in cui è indispensabile la memoria. Per esempio, al cliente che mette per la prima volta piede in un supermercato si vende sì la merce, ma di solito gli si offre anche una carta di fidelizzazione - ovvero di memorizzare i suoi dati in un computer, nonché i suoi acquisti - in cambio di alcuni vantaggi significativi.

Quindi ... vacilla il paragone proposto da Margalit tra "relazioni spesse" e particolarismo, "relazioni sottili" ed universalismo.

Mi spiego meglio: Margalit dice che il cristianesimo cerca di unire l'umanità in una comunità unita da un'unica grande "relazione spessa", in cui l'essere umani è sufficiente per creare una memoria condivisa ed attivare sentimenti di mutuo aiuto; di contro, l'ebraismo invece vuol mantenere la differenza tra la "relazione spessa" all'interno del _klal Yisrael = collettività ebraica_, e la "relazione sottile" con il resto dell'umanità.

Margalit, pur essendo un ebreo "laico", riprende l'argomentazione dell'apologetica ebraica tradizionale secondo cui l'obbiettivo del cristianesimo è una pericolosa illusione, un voler realizzare l'era messianica in un mondo che ad essa non è preparato.

In realtà, le relazioni in cui la memoria è importante stanno diventando tanto pervasive che stanno nascendo delle leggi sulla privacy per impedire a chi detiene questa memoria di condividerla con terzi (magari in un altro continente), consentendo loro di entrare in una "relazione spessa" con migliaia di persone - che non la desiderano.

Questo solo fatto smentisce l'opinione di Margalit secondo cui è impossibile una condivisione della memoria a livello mondiale: è invece un fenomeno tanto possibile e naturale che bisogna contrastarlo, o meglio, impedire che faccia danno!

Margalit collega la memoria alla cura: lo scopo della memoria è l'aiutare il partner di una relazione spessa a prendersi cura dell'altro, in quanto consente di identificare i meriti ed i bisogni dell'altro. Per Margalit creare una "relazione spessa" che includa l'intera umanità è impossibile, perché è realisticamente impossibile prendersi cura di tutte le persone.

Ma nemmeno in una piccola comunità di poche persone tutti si prendono cura direttamente di tutti: ci si spartisce i compiti; chi è più bravo a prendersi cura lo fa, e chi è meno bravo lavora per consentire ai più bravi di dedicarsi interamente alla cura di chi ne ha bisogno.

È lo stesso Margalit a citare l'argomento della divisione del lavoro, a cui ricorrono anche famiglie di pochi nipoti che devono accudire i loro nonni; vi ricorrono certamente i circa 13 milioni di ebrei del mondo per aiutarsi a vicenda, e vi potrebbe tranquillamente ricorrere l'umanità intera se solo decidesse di farlo - sarebbe il lato positivo della globalizzazione.

Quando si parla di "memoria" ed "ebrei", di solito si parla anche di "Olocausto". Margalit ritiene che, poiché una relazione "spessa", ovvero in cui conti la memoria, non possa estendersi all'umanità intera, ma limitarsi soltanto a collettività limitate, la memoria dell'Olocausto non possa avere valore universale.

Secondo lui, essa può riguardare soltanto le collettività coinvolte nell'evento in quanto da esse provenivano le vittime od i carnefici (oppure i salvatori - Margalit di loro si è scordato).

Universalizzare la memoria dell'Olocausto o di altre atrocità sociali per lui è vuoto di significato e controproducente, anche perché le atrocità compiute dal cosiddetto "Occidente" sono meglio documentate di quelle commesse dagli altri, e quindi si finirebbe col costringere l'Occidente a subire un confronto morale da cui uscirebbe sempre perdente.

Margalit qui dimentica le analisi di chi ha mostrato come l'Olocausto sia stato reso possibile proprio dalla modernità, che ha fornito le teorie e le pratiche indispensabili ad esso, e pertanto è inevitabile che l'Occidente industrializzato appaia l'unico possibile colpevole di un simile misfatto.

Inoltre, Margalit giunge a conclusioni analoghe a quelle di alcune frange dell'ebraismo (a cui non appartiene certo il direttore dello Yad Vashem, e vi spiegherò poi perché) che tendono a ritenere la Shoah un problema esclusivamente ebraico, una delle conseguenze paradossali dell'Elezione d'Israele.

Per queste frange, essendo gli ebrei ontologicamente diversi dagli altri popoli, l'odio che gli altri popoli nutrono nei loro confronti è incomprensibile con categorie umane ed incomparabile con altri odi tra gruppi diversi. Non ha senso quindi che le vittime ebree della Shoah siano commemorate da non-ebrei, perché questi non hanno niente in comune con esse.

Quest'analisi ha il difetto di bloccare l'indagine scientifica, la quale ha invece mostrato che la Shoah è paragonabile ai genocidi degli armeni, degli zingari (tentato anche questo dai nazisti), dei tutsi in Ruanda, ed a quello che sta accadendo in Darfur (che ha suscitato l'indignazione anche del direttore dello Yad Vashem) - e tutte queste cose sono alcune delle possibili estreme conseguenze della preferenza per il proprio gruppo sociale, che ha per corollario il disprezzare gli altri gruppi sociali.

Quindi, la memoria dell'Olocausto e di altri genocidi ha significato universale: tutti possono essere indotti a partecipare ad un genocidio, indipendentemente dai precedenti rapporti con le vittime designate. E questi eventi sono lezioni che non devono ripetersi.

Quando si insegna alle persone di distinguere tra la "relazione spessa" con il proprio collettivo, e la "relazione sottile" con il resto dell'umanità, il risultato non è creare delle persone che sanno essere sia "leali" (verso il collettivo) che "umane", ma creare una situazione di cui vi parlo dopo avervi tradotto quest'articolo:

(quote)

Un esperto: i giovani ebrei americani pensano che identificarsi col loro gruppo etnico sia "non kasher"

Il collegamento dei giovani ebrei americani con il popolo ebraico sta sempre declinando poiché sono indotti a credere che identificarsi con il loro gruppo etnico sia "non kasher", ha detto uno dei maggiori esperti di storia ebraica americana questa settimana [nei primi giorni del 2007, ndr].

"Nei loro campus universitari, identificarsi con gli Ebrei come popolo, il che non è la stessa cosa che identificarsi con l'Ebraismo, non è considerato kasher", ha detto il prof. Jack Wertheimer, che funge anche da rettore del Jewish Theological Center di New York. "Solo le persone di colore sono autorizzate ad identificarsi con i loro compagni di etnia, mentre gli americani bianchi non sono autorizzati a partecipare a questo tipo di comportamento".

Parlando questa settimana ad una conferenza all'Università Ebraica [di Gerusalemme, ndr], Wertheimer ha detto che gli Ebrei "stanno gravitando verso l'universalismo a causa del loro disagio verso il particolarismo". Ed ha precisato che le organizzazioni ebraiche stanno diventando sempre più complici di questo processo, citando il cambiamento dello slogan delle United Jewish Communities (UJC), che è pian piano divenuto da "Noi siamo una sola cosa" a "Vivete con generosità" - il loro nuovo motto non indica chi deve ricevere il frutto della generosità dei filantropi.

"Le organizzazioni ebraiche, invece di promuovere l'idea del prendersi cura del popolo ebraico, hanno attenuato quest'idea, forse perché loro conoscono il loro mercato e sanno quello che si può vendervi", ha detto.

Wertheimer si è inoltre lamentato dei tentativi di universalizzare l'Ebraismo, cosicché valori come tiqqun 'olam (emendare il mondo) e kol Yisrael 'arevim zeh lazeh (tutto Israele garantisce l'uno per l'altro) non si concentrano più sulla comunità ebraica. Fare pressione per le vittime del Darfur o pulire i fiumi americani, ha detto, hanno ora la precedenza sul sostegno alle istituzioni comunitarie ebraiche perché c'è ora una "diminuzione dell'interesse" per i propri compagni ebrei.

Wertheimer stava parlando ad una sessione sull'identità ebraica ed il multiculturalismo, parte di una conferenza di tre giorni all'Università Ebraica in onore del Prof. Gideon Shimoni, che per motivi di età ha recentemente lasciato l'Istituto Avraham Harman sull'Ebraismo Contemporaneo.


Nella stessa sessione, il Prof. Michael Brown dell'Università di York a Toronto ha parlato a proposito della comunità ebraica canadese e dell'impatto del multiculturalismo, che è divenuto nel 1971 politica ufficiale del governo e da allora ha indebolito il senso di lealtà di gruppo tra alcuni ebrei del paese.

"È possibile", ha detto Brown, "che alla fine il multiculturalismo sarà servito ad indebolire l'autonomia e l'unicità del gruppo ebraico in Canada".

(unquote)

La cosa più interessante dal mio punto di vista è questo punto del ragionamento del Prof. Wertheimer: il fatto che l'UJC non dica più agli ebrei di beneficiare esclusivamente le organizzazioni filantropiche ebraiche (che comunque, grazie ai loro meriti, continuano a raccogliere notevoli somme, e spesso le donano anche a non-ebrei), ma di essere generosi in generale verso chi ne ha più bisogno viene considerato non un dare esempio di "moralità", ovvero di dedizione anche a coloro a cui si è legati solo da "relazioni sottili", ma come l'espressione di un disagio nei confronti del collettivo ebraico.

Allo stesso modo, fare pressione per il Darfur oppure impegnarsi per l'ambiente non è visto come una meritoria presa di coscienza che tutti gli uomini sono creati a immagine di D%o o come accettazione della responsabilità dell'uomo verso la natura, corollario della prima biblica mitzwah "Pru urevu" (crescete e moltiplicatevi): vengono ritenuti risorse sottratte alle esigenze del collettivo ebraico.

E questi sono i ragionamenti del Chief Academic Officer del Jewish Theological Seminary di New York, una delle migliori scuole ebraiche del mondo. Questi smentisce tranquillamente Avishai Margalit, il quale non si rende conto che ufficializzare la distinzione fra "etica delle relazioni spesse" e "morale delle relazioni sottili" significa autorizzare i capi di un collettivo, qualunque esso sia (gli ebrei in questo non sono peggiori degli altri), ad interpretare ogni impegno nel campo delle "relazioni sottili" come privazione di risorse verso coloro a cui si è legati da una "relazione spessa".

La conseguenza di queste pressioni è che le "relazioni sottili" si assottigliano e spezzano, e l'unica relazione che veramente conta rimane quella "spessa" - supposto che la distinzione tra "relazioni sottili" e "spesse" abbia senso in un mondo come il nostro, e non sia semplicemente un otre nuovo per il vino vecchio.

Un'ultima cosa cosa che mi permetto di osservare del libro di Avishai Margalit è che la sua contrapposizione tra il "progetto cristiano" ed il "progetto ebraico" non solo si basa su una contrapposizione tra "relazioni sottili" e "relazioni spesse" che secondo me è sbagliata, ma ignora che molti ebrei sono fortemente universalisti (non è solo il Prof. Jack Wertheimer a lagnarsene - e molti altri ebrei, ovviamente, se ne rallegrano), e che molti cristiani non sono capaci di salutare quelli della loro stessa parrocchia che militano in movimenti religiosi su posizioni opposte al proprio.

Sarebbe stato meglio designare le due posizioni come "progetto Ben Azzai" e "progetto Maimonide", prendendo così atto che questi "progetti" hanno i loro sostenitori in ogni gruppo umano.

Ben Azzai non solo riassunse la Torah nel versetto di Genesi 5:1, che dice: "Questo è il libro delle generazioni dell'uomo. Nel giorno in cui D%o creò l'uomo, ad immagine di D%o lo creò", ma interpretava Levitico 19:18, che dice: "Ed amerai il prossimo tuo come te stesso", nel senso che il "prossimo" di cui qui si parla è l'essere umano in generale.

Maimonide invece - e l'halakhah è dalla sua parte - sostiene che il "prossimo" in questione è solo l'ebreo. Si fa la carità ai non-ebrei, ma solo per motivi di superiore opportunità, non perché esista un precetto biblico in merito.

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