giovedì 24 dicembre 2009

Ebrei revocabili ed irrevocabili

[1] http://www.jpost.com/servlet/Satellite?apage=1&cid=1261364487790&pagename=JPost/JPArticle/ShowFull

Nell'articolo [1] si legge che rav Shimon Ya'acobi, consulente legale dell'Amministrazione dei Tribunali Rabbinici israeliani, ricevette dall'ex-Procuratore Generale Menachem Mazuz la richiesta di un parere legale sull'annullamento della conversione all'ebraismo di una donna danese che, volendo divorziare dal marito, non aveva trovato argomento migliore del fatto che lei non aveva mai osservato il Sabato in famiglia, né si era astenuta dai rapporti sessuali col marito nei giorni prescritti dalla legge religiosa ebraica.

Il tribunale rabbinico ritenne questo comportamento dimostrazione d'insincerità della donna che voleva convertirsi, e ne annullò la conversione ex tunc, col risultato che, poiché la legge ebraica non ammette matrimoni tra ebrei e non ebrei, anche il suo matrimonio risultava nullo; conseguenza più allarmante fu che i tre figli che aveva avuto la coppia perdevano la loro ebraicità (che nell'ebraismo ortodosso si eredita dalla madre o si acquisisce per conversione) perché secondo il tribunale la madre non era mai stata ebrea, e non poteva rendere ebrei loro.

Non sono un conoscitore della legge ebraica, e devo ragionare per ipotesi e deduzioni. Se non c'è un limite oltre il quale non è più possibile impugnare la conversione all'ebraismo di una persona, e l'annullamento della conversione è efficace anche verso i terzi in buona fede (come i figli e discendenti di una convertita), si può creare un'orribile situazione in cui coloro i quali hanno ricostruito la loro genealogia fino al punto di scoprire chi delle loro antenate entrò nel "Patto di Abramo", e trasmise l'ebraicità al suo lignaggio, divengono vittime della loro stessa diligenza, perché qualora si scoprissero episodi poco edificanti nella vita di quest'antenata, e la sua conversione fosse perciò annullata, tutti i suoi discendenti smetterebbero di essere ebrei.

Se il parere legale di rav Shimon Ya'acobi viene confermato come corrispondente alla legge ebraica, la conseguenza sarà il dividere gli ebrei in due categorie: quelli ad "ebraicità revocabile", già descritti, e coloro delle cui antenate si sa soltanto che erano tutte considerate ebree figlie di ebrea, perché della prima di loro, colei che si convertì, si è ormai perso il ricordo. Questi li possiamo considerare ad "ebraicità irrevocabile".

Nell'Unione Europea o negli Stati Uniti, dove è vietato discriminare nella vita civile le persone sulla base dell'appartenenza religiosa, la revocabilità o meno dell'ebraicità di una persona non farebbe gran danno.

Certo, una donna ebrea ortodossa ad "ebraicità irrevocabile" vedrà il suo "valore matrimoniale" crescere notevolmente rispetto alle sue compagne ad "ebraicità revocabile", perché garantisce che anche i suoi figli saranno ad "ebraicità irrevocabile" - ma questo è un problema che lo stato non può risolvere.

Invece in Israele esistono discriminazioni sulla base dell'appartenenza religiosa, e vi descrivo uno degli esempi che mi è venuto in mente del danno che il parere di rav Ya'acobi può provocare.

Supponiamo che un ebreo israeliano chieda un prestito ad una banca; la banca si troverà allora costretta a compiere un'indagine genealogica (il cui costo si aggiungerà alle spese di istruttoria), volta a scoprire se l'ebraicità del cliente è "revocabile" od "irrevocabile".

Se infatti il cliente fosse ad "ebraicità revocabile", ed essa venisse appunto revocata, egli potrebbe perdere con essa la cittadinanza israeliana (perché la maggior parte degli israeliani ha ottenuto la cittadinanza in conseguenza della loro ebraicità), verrebbe espulso dal paese, e sarebbe molto difficile per lui ripagare il debito.

Questa remota eventualità per la banca costituisce un rischio supplementare, che la indurrà o ad aumentare il tasso d'interesse, oppure ad esigere garanzie (come un'ipoteca od una fideiussione) che da un cliente ad "ebraicità irrevocabile" non esigerebbe.

Questo sarebbe l'inizio delle discriminazioni economiche a danno delle persone ad "ebraicità revocabile". Ed anche dell'astio che le persone ad "ebraicità irrevocabile" proveranno per loro.

Infatti, la notevole mobilità che hanno sempre avuto gli ebrei (in cerca di nuove opportunità od in fuga dalle persecuzioni) può imporre a chi compie un'indagine genealogica su uno di loro di esaminare documenti vecchi anche di dieci secoli sparsi negli archivi di cinque continenti.

Quanto debba essere accurata una simile indagine ce lo lascia capire un personaggio del libro "La mano di Fatima" dell'avvocato catalano Ildefonso Falcones: Don Juliàn di giorno è canonico della cattedrale di Cordova, di notte un morisco arabista che insegna ad Hernando, il protagonista del romanzo, al-lu5a al-3arabiyya al-fus7a - l'arabo classico.

Don Juliàn spiega ad Hernando (ed ai lettori) che questo gli era stato possibile perché quando lui era giovane le indagini sulla limpieza de sangre di un candidato al sacerdozio riempivano un fascicolo di sole 30 pagine; ma ora (fine del '500) le indagini riempiono faldoni di 150 pagine, ed un nuovo cristiano che volesse provarci ad entrare nel clero verrebbe smascherato da un'indagine tanto accurata.

Un'indagine simile impone spese notevoli che anche chi è ad "ebraicità irrevocabile" dovrà sostenere per distinguersi dalle persone ad "ebraicità revocabile"; ed i primi potrebbero concludere che la cosa giusta da fare sarebbe incaricare l'Agenzia Ebraica di procedere alla digitalizzazione completa di tutti gli archivi genealogici pertinenti, in modo da stabilire una volta per tutte, e scrivere magari sulla carta d'identità, la revocabilità o meno dell'ebraicità di tutti gli israeliani.

Altra seria discriminazione nascerebbe dal fatto che chi vuole assumere una persona a tempo indeterminato oppure cerca un socio per un'impresa commerciale, preferisce una persona che non rischia di essere espulsa dal paese, e quindi preferirà una persona ad "ebraicità irrevocabile".

E se una persona ad "ebraicità revocabile" chiedesse l'assegnazione di un immobile del KaKaL (Fondo Perpetuo per Israele), che è proprietario del 13,5% degli immobili israeliani, e per statuto può concederne l'uso solo agli ebrei, i funzionari responsabili del concorso cercheranno tutti i pretesti per metterla in fondo alla graduatoria, in modo da non correre il rischio di doverla sfrattare qualora l'ebraicità di costei venga revocata.

Anche se costei non perdesse la cittadinanza israeliana (per esempio, perché suo padre è persona ad "ebraicità irrevocabile"), non potrebbe più comunque continuare a vivere in un immobile del KaKaL, e l'esperienza insegna che chi è costretto a vendere entro termine perentorio i suoi diritti su un immobile (come capitò durante le persecuzioni antiebraiche dell'Italia fascista e della Germania nazista, e prima ancora ai marranos ed ai moriscos in via di espulsione dalla Spagna) fa magrissimi affari.

Sarebbe una delle più crudeli ironie della storia scoprire che il paese che è nato per impedire che gli ebrei si trovassero nella scomoda e pericolosa condizione di cittadini di seconda classe si troverà ad istituire una discriminazione simile a quella che vigeva in Spagna tra i "vecchi" ed i "nuovi" cristiani.

Inoltre, questo parere legale è pericoloso anche per chi vive nella Diaspora. Qualche tempo fa il custode dei libri della Società Letteraria di Verona diede fuoco al deposito della biblioteca perché non si scoprisse che lui aveva sottratto molti volumi - per fortuna il deposito era nella zona industriale, e non nella sede della società, dirimpetto all'Arena.

Orbene, se la distinzione tra persone ad "ebraicità revocabile" ed "irrevocabile" si basa sui dati degli archivi delle comunità ebraiche, potrebbe nascere la figura del "manipolatore di archivi" che dovrà sostituire i documenti che potrebbero decretare la "revocabilità" dell'ebraicità di qualche stimato membro della comunità con delle panzane - prima che venga compiuta un'indagine genealogica.

Ma se la manipolazione da compiere fosse troppo estesa, e fossero molti i membri (insieme con i loro figli, nipoti e pronipoti, magari già in Israele e quindi "ostaggi" del Gran Rabbinato) con tutto l'interesse a che non si scopra mai che la loro ebraicità è in realtà "revocabile", che rischi correrebbero l'archivio e l'edificio che lo ospita - e le persone che ci lavorano o vivono?

Si dice che chi ignora il passato è condannato a ripeterlo. Chissà che cosa conosce del passato rav Shimon Ya'acov.

domenica 6 dicembre 2009

Alfredo Niceforo e Sergei Nilus

Sergei Nilus è stato un grande della spiritualità russa ortodossa a cavallo tra il 19° ed il 20° secolo, ma i suoi stessi ammiratori devono ohiloro ammettere che fu anche uno dei promotori di quel mostruoso falso antisemita chiamato "I Protocolli dei Savi Anziani di Sion".

Questi Protocolli continuano ad avere una grande popolarità nel mondo arabo, c'è qualche sostenitore della causa palestinese che li adopera, ed altri sostenitori che minimizzano questo fatto, sostenendo che questa è un'inezia a confronto delle autentiche sofferenze dei palestinesi.

Ora, per quanto io empatizzi con le sofferenze dei palestinesi, non posso passar sopra ai Protocolli, e mi auguro che almeno i sardi che leggono questo post si rendano conto del perché mettendo a confronto il modo in cui i Protocolli diffamano gli ebrei con il modo in cui Alfredo Niceforo diffamava i sardi.

Il sito web "Quindici OnLine", un giornale online di Molfetta, ha fatto a fettine Niceforo in questa serie di articoli intitolata "Alfredo Niceforo. La teoria delle due civiltà ed il federalismo razziale" che vi invito a leggere:

[1] http://www.quindici-molfetta.it/News.aspx?Id_News=16895

[2] http://www.quindici-molfetta.it/News.aspx?Id_News=16896

[3] http://www.quindici-molfetta.it/News.aspx?Id_News=16898

Ci sono molte differenze tra il razzismo di Niceforo ed il cospirazionismo dei Protocolli, ma penso che qualsiasi sardo od italiano del sud giustamente indignato col Niceforo, e pertanto ben deciso a non prendere nemmeno il caffé con chi mostra di condividerne le teorie, possa ben capire l'indignazione degli ebrei con chi mostra di credere alla veridicità dei Protocolli.

L'antisemitismo ha le sue peculiarità, ma non è così diverso dalle altre forme di razzismo da essere incomprensibile da chi non è ebreo - ed anche chi non è ebreo può trovarsi vittima di situazioni simil-antisemite.

E, guarda caso, il Niceforo e gli autori dei Protocolli concordano in una cosa: le popolazioni a cui dedicano le loro invettive vengono considerate indegne dei diritti e delle libertà del cittadino, e pericolose per il resto del paese o del mondo.

martedì 17 novembre 2009

Offrire denaro od altra utilità a chi si converte

Il testo di Sami A. Aldeeb Abu-Shlieh "Il diritto islamico", Carocci, Roma, 2008, avverte a pagina 318 che questa norma coranica è stata abrogata già da Abu Bakr, il primo califfo che successe a Maometto.

La mia esortazione perciò è assolutamente superflua.

***

[1] http://www.nytimes.com/2009/11/17/world/europe/17rome.html?_r=1&ref=middleeast

Il Corano (9:60) permette di offrire i proventi della zakat (l’elemosina che è uno dei pilastri della fede) anche a coloro che simpatizzano per l’islam, in modo da convincerli a fare il grande passo convertendosi.

Ora, credo che condizione della libertà religiosa sia che convertirsi non deve né peggiorare né migliorare la propria vita materiale – altrimenti la scelta non è completamente libera.

Pertanto i mussulmani dovrebbero, a mio avviso, astenersi dal fare quest’uso del proprio denaro; e sarebbe assai opportuna una norma simile a quella israeliana, che vieta di offrire benefici materiali in cambio della conversione religiosa.

Secondo l’articolo citato, Gheddafi ha non solo pagato delle donne per ascoltare la sua lezione sull’islam (cosa tuttalpiù discutibile), ma ha anche offerto loro di pagare lo Hajj (il pellegrinaggio alla Mecca) qualora si fossero convertite all’islam.

E qui ha violato un elementare principio etico, se non la legge italiana. Mi spiace che il Corano non sia d’accordo, ma il Corano ovviamente parteggia per l’islam e non per la libertà religiosa.

Non credo che valga a difesa di Gheddafi il sostenere che il recarsi alla Mecca è solo un dovere religioso islamico, e che il suo valore extrareligioso è scarso: la città e l’Haram della Mecca, a giudicare dalle riproduzioni che ho visto, sono bellissimi, ed al valore religioso del pellegrinaggio si aggiunge sicuramente quello turistico.

lunedì 9 novembre 2009

Il velo nel momento sbagliato

Devo ritrattare gran parte del post. Avevo premesso: "Se non ci sono disposizioni più stringenti di cui non sono a conoscenza ...", e le disposizioni mi sono state indicate - si tratta dei versetti 23:59 e 24:31, che vengono normalmente interpretati come l'imposizione del velo alle donne, tranne che di fronte ai soli parenti più stretti.

Non ho ora il tempo di riscrivere l'intero post, e posso solo avvertire il lettore che non deve lasciarsene fuorviare (mi scuso perciò con chi lo ha già letto), e gli consiglio semmai di leggere questa pagina web, per avere un'opinione più valida:

http://it.wikipedia.org/wiki/Hijab

Scusate tanto.

*

Sto leggendo (per motivi esclusivamente culturali) il Corano in quest’edizione stampata in Arabia Saudita, paese noto per molte cose, ma non certo per il lassismo religioso:

http://store.dar-us-salam.com/product/Q48a.html

ed ho trovato un'interessante nota in lingua inglese alla Sura 7, Versetto 31.

Il versetto dice:

  • in arabo: "Ya bani Adam! Khudhu zaynatakum 'inda kulli masjidin ..."
  • nella traduzione inglese del libro (non mi pare una traduzione letterale, ma non penso di riuscire a far meglio): "O Children of Adam! Take your adornment while praying ..."
  • traducendo dall'inglese in italiano: "O figli di Adamo! Prendete i vostri ornamenti mentre pregate..."

e questa è la nota in inglese:

(quote)

It is obligatory to wear the clothes while praying. And the Statement of Allah: “Take your adornment [(by wearing your clean clothes) covering completely the ’Aurah (covering of one’s ’Aurah means: while praying, a male must cover himself with clothes from umbilicus of his abdomen up to his knees, and it is better that his both shoulders should be covered. And a female must cover all her body and feet except face, and it is better that both her hands are also covered)] while praying [and going round (the Tawaaf of) the Ka’abah].”

In how many (what sort of) clothes a woman should pray? ‘Ikrimah said, “If she can cover all her body with one garment, it is sufficient.”*

* It is agreed by the majority of the religious scholars that a woman while praying should cover herself completely except her face, and it is better that she should cover her hands with gloves or cloth, but her feet must be covered either with a long dress or she must wear socks to cover her feet. This verdict is based on the Prophet’s statement. (Abu Daawuud)

Narrated ‘Aaishah: Allah’s Messenger (pbuh) used to offer the Fajr prayer and some believing women covered with their veiling sheets used to attend the Fajr prayer with him, and then they would return to their homes unrecognized. [Sahih Al-Bukhaari 1/372 (O.P.368)]

(unquote)

Traduco:

(quote)

E' obbligatorio pregare vestiti. Ed il detto di Allah: "Prendete i vostri ornamenti [(indossando vestiti puliti) coprendovi interamente l''Aurah (coprirsi interamente l''Aurah significa: durante la preghiera un maschio deve avere un vestito che copre il corpo dall'ombelico dell'addome fino alle ginocchia - e sarebbe meglio che fossero coperte anche ambo le spalle. Ed una femmina deve coprire tutto il suo corpo ed i piedi, tranne il viso, e sarebbe meglio che fossero coperte anche ambo le mani)] durante la preghiera [e circumambulando (il Tawaaf) la Ka'abah]."

Ed in quanti vestiti (con che tipi di vestito) la donna dovrebbe pregare? 'Ikrimah disse: "Se lei riesce a coprire tutto il corpo con un vestito solo, basta questo."*

* Concorda la maggioranza degli esperti di religione che una donna che prega deve coprire se stessa completamente, salvo il viso, ed è meglio che si copra le mani con i guanti o con uno straccio, ma i suoi piedi devono essere coperti o con una lunga veste, o deve indossare dei calzini per coprirsi i piedi. Questo verdetto si basa sull'affermazione del Profeta. (Abu Dawuud)

Narrò 'Aaisha: il Messaggero di Allah (su di Lui sia pace) abitualmente recitava la preghiera del Fajr, ed alcune donne credenti coperte da veli erano abitualmente presenti al Fajr con lui, e poi tornavano a casa senza farsi riconoscere. [Sahih Al-Bukhaari 1/372 (O.P.368)]

(unquote)

Se non ci sono altre disposizioni più stringenti di cui non sono a conoscenza, questo significa che:

  1. Il precetto religioso non impone alle donne mussulmane di coprirsi il viso; ergo la disposizione della Legge Reale che vieta di coprirselo (salvo giustificato motivo) non impone alle pie mussulmane di violare i loro precetti religiosi, e non può essere impugnata per lesione della libertà religiosa (ed infatti nessuno ci ha mai provato);
  2. Il velo è obbligatorio soltanto durante la preghiera; ergo, una legge (come quella tunisina e quella turca; più limitato è il divieto della legge francese e di quella egiziana) che vieti il velo al di fuori di questa circostanza non può essere impugnata per lesione della libertà religiosa (anche qui si sono fatte molte polemiche, ma nessun'azione legale); può essere impugnata per mancanza di ragionevolezza, se non si dimostra come portare il velo nuoccia all'ordine pubblico;
  3. si può inoltre proporre questo caso di scuola: il responsabile di un "Islamic Superstore" in Italia, che ha più di 15 dipendenti, licenzia una commessa che indossa il velo solo quando prega, e si presenta tranquillamente al lavoro vestita all'europea. La commessa impugna il licenziamento; il responsabile sostiene che l'"Islamic Superstore" è un'"organizzazione di tendenza", e può perciò pretendere che tutti i suoi dipendenti condividano la sua ideologia (in questo caso, essendo dei buoni mussulmani); la commessa lo ammette, ma aggiunge che, poiché non c'è obbligo di portare il velo quando non si prega, il suo rifiuto non consente di ritenerla una cattiva mussulmana, ed il licenziamento è pertanto ingiustificato.
Ora che mi viene in mente, il 14 Settembre 2009 ho visitato la Moschea di Alabastro al Cairo, sulla Cittadella; mi accompagnava una bella ragazza che però aveva le spalle scoperte; all’ingresso una signora le porse un velo che la coprì dal collo ai piedi; la ragazza chiese se doveva coprirsi anche il capo e, con stupore anche di lei, le fu risposto di no – con gran gioia di tutti i presenti, perché i suoi capelli erano straordinari.

Essendoci noi recati lì in visita turistica, e non per pregare, non era necessario per la mia accompagnatrice coprirsi l’intero corpo. Le donne che portano il velo sempre e comunque, o obbediscono ad un uso che non ha nulla a che fare con l’islam (comune infatti in passato anche alla cristiana Europa mediterranea), oppure vogliono fare della loro vita una continua preghiera – e mi piacerebbe chiedere ai mussulmani se questo è opportuno dal loro punto di vista.

Il mio personale punto di vista è questo: non ritengo ragionevole proibire il velo, purché consenta di identificare la persona. Quest'articolo serve solo a stabilire dove porre il "bilanciamento" tra i diritti e gli interessi in gioco.

mercoledì 4 novembre 2009

Il crocefisso nel posto sbagliato

Ho plaudito alla decisione della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo sui crocefissi nelle scuole italiane, per questi motivi:

  1. Uno stato moderno dev'essere religiosamente neutrale;
  2. Un crocefisso in un edificio pubblico comunica in modo estremamente chiaro che lo stato che gestisce quell'edificio non è imparziale, e che chi non è cristiano in quell'edificio è fuori posto;
  3. Un crocefisso può ledere la libertà religiosa dei non-cristiani, ed il modo me lo ha spiegato una volta il rabbino (ortodosso) di Verona, Italia: un ebreo non può pregare in un luogo in cui vi siano delle immagini, ed il crocefisso è un'immagine; pertanto una famiglia ebrea, per pregare sulla salma del proprio congiunto defunto in un ospedale pubblico italiano, deve togliere il crocefisso dal muro (sperando di non farsi male - il volontario non può mica chiedere una scala e deve salire su una sedia od un mobile), tenerlo chiuso dentro qualcosa finché prega - e sperare che nessuno faccia la spia! Invece i cristiani possono pregare ovunque, e la mancanza del crocefisso in un edificio profano non reca loro danno;
  4. Sono stato nel maggio scorso a Petra, Giordania, ed ho notato che in quel paese abbondano i ritratti dell'attuale re Abdallah, e non mancano quelli del defunto re Hussein; con tutta la mia simpatia per entrambi, non ho potuto fare a meno di notare che più viene ostenso il ritratto di un re, più debole è il suo ascendente sui sudditi, e più insicuro il suo regno;
  5. Per i cristiani Gesù è il Re dei Re, ed anche per lui vale questo principio: chi insiste per appendere il suo "ritratto" in tutti gli edifici pubblici ammette che lui che è da tempo scomparso dal cuore dei suoi fedeli.

Sono obbligato a riservare una sferzata al nuovo segretario del PD Bersani, che ha osato definire il crocefisso a scuola una tradizione innocua. Quanto sia davvero innocua l'ho scoperto leggendo su Facebook lo stato di una mia (ormai ex) amica, insegnante di scuola media, la quale si è chiesta quanti immigrati di religione non cristiana chiederanno un indennizzo allo stato, e chi pagherà il conto.

La taccagneria di chi subordina il riconoscimento di un elementare diritto umano (la libertà di religione, che include la non-discriminazione) a questioni finanziarie mi ha fatto ribollire il sangue (penso che Konrad Adenauer, che pagò 845 milioni di dollari ad Israele in riparazioni per la Shoah, si sia rivoltato nella tomba), ma la cosa veramente importante da contestare era che quella donna ragionava come se l'essere non cristiani fosse una cosa possibile soltanto in chi non era italiano.

Queste sono le idee che suggerisce la "tradizione innocua". Bersani si sta dimostrando succube come lo furono Veltroni e Franceschini dei bigotti che pensano più al potere che alla fede.

Ah, ulteriore (non voluta) conseguenza della sentenza è che nel futuro prevedibile Israele si guarderà bene dall'aderire al Consiglio d'Europa: quel che vale per i crocefissi, vale anche per le mezuzot, presenti in ogni edificio pubblico israeliano e nella maggioranza di quelli privati in ottemperanza ad un ben preciso precetto religioso.

Credo che soltanto il Meretz, dei partiti sionisti israeliani, sarebbe disposto a rimuoverle per amore della laicità dello stato e della non-discriminazione.

martedì 3 novembre 2009

Il tu che libera, il tu che assoggetta

Mi permetto di criticare quest'articolo, che qui riporto per vostra comodità:

(quote)

La parola ebraica attàh, “Tu”, scandisce la preghiera e ritma le benedizioni, facendo seguito immediatamente a Barùkh (“Benedetto sei Tu…”). Anche una parola apparentemente semplice come attàh non è priva di significati teologici e richiede una particolare attenzione. Le prime due lettere di attàh sono alef e tav. Queste due lettere sono anche la prima e l’ultima dell’alfabeto ebraico; segnano dunque l’inizio e la fine e perciò - come insegnano i maestri della tradizione qabbalistica - rappresentano l’intera Creazione. Tutto ciò che è stato, è e sarà, accade attraverso le lettere alef e tav, ne porta il sigillo. Ma messe l’una accanto all’altra le due lettere danno et, la particella usata in ebraico per il complemento oggetto. In breve: alef e tav da sole si riferiscono al mondo trattandolo come un oggetto. Tutto resterebbe inanimato se in attàh non ci fosse la terza lettera, la he, quasi solo un soffio, che rinvia al Nome di D-o. La he finale è l’anima della parola attàh, è il soffio che, mentre diciamo attàh, “Tu”, ci porta all’esterno, ci fa uscire dal nostro sé, ci congiunge con l’Altro e segna così anche il passaggio dal rapporto con l’oggetto inanimato a quello con un altro soggetto o, meglio, con il Tu.

Questo vuol dire che attàh è una parola sacra. Nel Tu, che rivolgiamo quotidianamente agli altri, risuona il “Tu eterno” che rivolgiamo a D-o nella preghiera. Nel Tu di ogni frase quotidiana c’è un frammento nascosto di preghiera. Dire Tu non è pronunciare una parola qualsiasi; ma significa far riecheggiare il soffio del vocativo assoluto con cui possiamo dire “io” riconoscendo l’altro come “tu”. È la riflessione sulla parola ebraica attàh, di uso comune nell’ebraico moderno, ad aver spinto Martin Buber nel suo famoso saggio Io e tu, a fare di questa parola ebraica un’esperienza universale.

Donatella Di Cesare, filosofa

(unquote)

Donatella Di Cesare svolge una bellissima analisi, ma dimentica una cosa: in ebraico anche i pronomi di seconda persona hanno due forme - una maschile ed una femminile.

Il pronome di cui lei parla, che si pronuncia "attah" e si scrive con le lettere ebraiche .alef.tav.he, è la forma maschile del pronome "tu"; la forma femminile si pronuncia "at" e si scrive con le sole lettere .alef.tav - esattamente come la parola "et", il segnacaso dell'accusativo.

Nell'analisi di Di Cesare, è la divina .he che impedisce che l'.alef, la .tav e tutto ciò che è tra esse sottinteso riducano l'interlocutore ad oggetto dell'azione del parlante; ma questa prerogativa è della sola forma maschile.

La forma femminile non ha questa "grazia salvifica" (per mutuare il linguaggio della teologia cristiana), ed a prendere sul serio l'analisi di Di Cesare, la grammatica ebraica avrebbe assegnato alla donna il rio destino di essere l'oggetto dell'azione di chi le rivolge la parola.

Ci sarebbero dunque un "tu" (maschile) che libera ed un "tu" (femminile) che assoggetta.

La conclusione mi pare assolutamente inaccettabile, e mostra una delle conseguenze della fallacia di ritenere il linguaggio isomorfo alla realtà - o, per meglio dire, il ritenere che la struttura del linguaggio riveli come il Creatore ha progettato il mondo che ha creato.

In realtà, nel migliore dei casi il linguaggio rivela la struttura del senso comune di qualche tempo fa, in espressioni come "il sole sorge", ma non è tenuto ad adeguarsi al progresso della scienza.

Inoltre, prenderlo come fonte della morale (con analisi come questa) ci fa cadere nella fallacia naturalistica già stigmatizzata in altri post.

giovedì 8 ottobre 2009

Colombo Valentina, da arabista ad intollerante

Ho letto il libro di Valentina Colombo "Islam. Istruzioni per l'uso" (Oscar Mondadori 2009), e mi ha infastidito parecchio.

Lei riporta molti fatti allarmanti da prendere sul serio, ma sembra che per lei l'unica difesa contro l'estremismo religioso islamico sia sospendere il principio di eguaglianza garantito dalla nostra Costituzione, ovvero vietare ai mussulmani quello che è lecito agli altri.

Primo esempio è il jihad: normalmente si argomenta che la parola significa semplicemente sforzo (sulla via di Dio), e che il jihad nel senso di conquista militare di nuovi territori all'Islam va compiuto solo dopo aver completamente islamizzato (nell'ordine) il proprio comportamento, il proprio paese, i paesi già islamici.

Valentina Colombo argomenta che quest'interpretazione va bene tuttalpiù per i sufi, non certo per gli estremisti mussulmani (che lei ritiene maggioritari nelle organizzazioni islamiche europee); non posso contraddire chi ha tradotto diversi romanzi di Nagib Mahfuz, però devo per forza notare che, come esempio di suprema aggressività, lei non riesce a trovare di meglio che questa citazione di Hamza Roberto Piccardo (pagina 192 del libro di Valentina Colombo):

Quando la Comunità dei musulmani è aggredita, minacciata, oppressa o perseguitata, i credenti hanno il dovere di combattere esercitando il loro diritto-dovere alla legittima difesa.

A parte il fatto che non si capisce come si possa chiedere ad una comunità umana di lasciarsi schiacciare senza opporre resistenza (perfino l'assolutista Hobbes riconosceva all'individuo il diritto di resistere all'autorità dello stato che lo avesse voluto sopprimere), questa citazione di Piccardo mi ha ricordato il lato oscuro di un pensatore liberale, tale John Rawls, benedetta sia la sua memoria.

Nelle pagine 131-140 dell'edizione italiana della sua opera I diritti dei popoli (Edizioni di Comunità) egli discute dell'Eccezione dell'Emergenza Suprema, ovvero quando il pericolo per la libertà di un popolo sia tanto grave da consentire di colpire anche i civili della nazione nemica, e con armi di distruzione di massa altrimenti vietate.

Non posso riportare l'intera argomentazione, ma cito soltanto questo paragrafo:

Sono le circostanze a determinare quando vale l'eccezione dell'emergenza suprema, e il giudizio al riguardo sarà a volte differente. Il bombardamento della Germania da parte dell'aviazione britannica per tutto il 1941 o il 1942 poteva essere giustificato perché non si poteva permettere alla Germania di vincere la guerra, e questo per due ragioni fondamentali. Primo, il nazismo faceva presagire un male politico e morale di portata incalcolabile per la vita civile in qualsiasi parte del mondo. Secondo, la natura e la storia della democrazia costituzionale e il suo ruolo nella storia europea erano in pericolo.

Credo che sia praticamente impossibile trovare un jihadista capace di argomentazioni più feroci di quelle di Rawls - e sebbene io apprezzi il pensiero di questi, devo per forza respingere queste argomentazioni, che vengano da lui oppure da uno jihadista.

Sono molto contento che un altro gran liberale come Michael Walzer affermi che l'Emergenza Suprema non si verifica praticamente mai, e che gli stessi eventi che Rawls aveva classificato come emergenze supreme non lo erano - svuotando così di significato questa dottrina; ciononostante, devo ammettere che l'essere liberali non impedisce di dire bestialità, ed insospettirmi di chi contrappone l'estremismo islamico ai timidi tentativi di far nascere un liberalismo islamico - ma senza rendersi conto che non è solo l'islam ad avere scheletri di tirannosauro nel suo armadio, e che anche i pensatori liberali hanno delle gran bonifiche da fare in casa loro.

Mi si dirà: "Rawls parla di difesa, i jihadisti di offesa". A parte il fatto che ci sono dei jihadisti che presentano la loro lotta come guerra difensiva, l'arte della guerra si basa sull'inganno, ed anche Hitler, per giustificare l'invasione della Polonia nel 1939, incaricò dei soldati tedeschi con uniformi polacche di inscenare un incidente di frontiera che desse il pretesto per la "risposta".

Non c'è alcuna garanzia che una dottrina bellica elaborata per la difesa non venga poi convertita in dottrina offensiva - ed anche i piani del Patto di Varsavia partivano sempre dal presupposto che l'attacco fosse provenuto dalla NATO, sebbene i loro scopi non fossero la difesa dei loro paesi, ma l'occupazione del mondo libero.

Per questo bisogna disapprovare sia Rawls che i jihadisti che predicano una guerra senza esclusione di colpi (il Corano pone dei limiti alla condotta bellica, ma non sono stati sempre rispettati): potrebbero cercare di convincere il pubblico che combatte e paga le tasse che l'unico modo per salvarsi da un mortale pericolo sia il rinunziare ad ogni scrupolo umano, e soltanto se si dice loro di no, che anche il nemico ha la sua dignità umana, la guerra che si combatte ha un senso.

Altro esempio è quando lei riferisce che l'Arabia Saudita, che ogni anno ospita circa due milioni di pellegrini per lo Hajj (il pellegrinaggio alla Mecca), ha installato ai valichi di frontiera dei sensori che leggono l'iride di chi entra, per garantirsi che in mezzo ai pellegrini non ci siano terroristi.

Nessuno avrebbe il coraggio di discutere la scelta dell'Arabia Saudita, ma Valentina Colombo ha voluto strafare dicendo che la decisione dell'Arabia Saudita dimostra che fare una cosa del genere in Italia non sarebbe segno né di islamofobia né di razzismo.

Il problema, se Valentina Colombo non lo ha capito, è che sarebbe inutile usare gli scanner dell'iride se si fotografassero solo gli occhi di chi si dichiara mussulmano. Quindi non si può nemmeno pensare di fare un immondo racial profiling - bisogna fotografare tutti i viaggiatori.

Inoltre, lo scanner dell'iride ha il notevole vantaggio (agli occhi dei fautori del velo) di non imporre al soggetto di togliersi il niqab - e penso che questo sia stato uno dei principali motivi che hanno convinto il governo saudita ad adottarlo. Questo scanner non è certo un colpo mortale all'estremismo maschilista :-)

Io non avrei niente in contrario a farmi fotografare i miei begli occhi, ma esistono problemi di privacy e di fondi da stanziare per le apparecchiature e la gestione dei dati - prima di dire sì vorrei essere sicuro che siano soldi spesi bene e quei dati siano gestiti correttamente.

Tornando alle violazioni del principio di eguaglianza propugnate da Valentina Colombo, vorrei attirare l'attenzione sulla lamentela che riporta di un intellettuale egiziano copto che si lagna che lui paga le tasse come tutti, ma che il Ministero degli Affari Religiosi egiziano paga solo le spese per il culto islamico - e che i copti in Egitto sono fortemente discriminati, cosa resa più facile dal fatto che sulle carte d'identità egizie è riportata la religione.

L'egiziano citato ha pienamente ragione, e Valentina Colombo fa bene a riferircelo, ma non si capisce come mai quello che è giusto motivo di biasimo quando si tratta dell'Egitto viene da lei passato sotto silenzio quando si tratta di Israele, che (come ammette il suo stesso governo) pratica in forma attenuata le medesime discriminazioni.

Inoltre, anche in Israele le carte d'identità riportano la religione - non in chiaro, ma in codice: se il titolare è ebreo, la data di nascita è riportata secondo il calendario ebraico; se non è ebreo, secondo il calendario gregoriano. Se non è zuppa, è pan bagnato!

Mi si può rispondere che lei sta parlando dell'islam e non di Israele, ma nel libro continua a battere sul chiodo dell'antisionismo presente nel mondo islamico, come se fosse frutto esclusivo della malvagità dei mussulmani, e non ci fosse nessun motivo obbiettivo per lamentarsi della condotta di Israele.

Preciso che non ritengo i mali di Israele motivo per invocarne la fine - ma mi sono convinto che lei abbia prima deciso di mettere l'islam sul banco degli imputati, e poi abbia scelto i principi in base ai quali processarlo, senza badare a quali altri possibili imputati avrebbero dovuto essere chiamati a correo.

Inoltre, non sono solo i contribuenti egiziani ed israeliani ad aver motivo di lamentarsi che il loro denaro va a finanziare comunità religiose a cui non aderiscono. Anche il contribuente italiano può lamentarsene con ottime ragioni - ma di questa palese violazione della separazione della religione dallo stato, e della libertà religiosa, che vuole che lo stato non favorisca una religione rispetto alle altre, non troverete parola nel libro di Valentina Colombo. Lei non combatte per la libertà.

Valentina Colombo parla anche del matrimonio islamico, e che esso non sia paritario è biasimevolmente vero (anche se alcuni paesi hanno cercato di correggerlo); palesano però il suo doppiopesismo gli strali che ella lancia contro l''urfi, una forma di promessa davanti a Dio che però non crea un matrimonio giuridicamente valido.

Questa promessa, spesso pronunciata secondo lei anche nelle moschee italiane, viene talvolta usata per frodare le leggi contro la poligamia, tant'è vero che la legge tunisina considera bigamo e punisce anche chi contrae un 'urfi in costanza di matrimonio. Inoltre, Valentina Colombo rimarca che quest''urfi lascia la donna senza alcuna tutela né durante il rapporto né in caso di ripudio, nemmeno quella risicata prevista dalla shari'a.

Sulla poligamia, dico solo che lo stato ha il diritto di vietarla e punire i trasgressori; ma non capisco perché mai Valentina Colombo non lanci strali anche contro il matrimonio cattolico esclusivamente religioso, non trascritto nei registri dello stato civile. Anche se la chiesa cattolica cerca di evitare la situazione in cui una persona ha un coniuge secondo l'anagrafe ecclesiastica, ed un altro secondo l'anagrafe civile, pure questo tipo di matrimonio cattolico ha il difetto di lasciare la donna senza alcuna tutela.

Eppure agli occhi di molte donne cattoliche, vedove titolari di pensione di riversibilità, è un matrimonio allettante, in quanto le mette in pace con Dio e non compromette la loro pensione. Sarebbe interessante chiedersi se le donne che contraggono un 'urfi siano sempre vittime di un raggiro, e non persone che preferiscono la versione islamica dell'unione di fatto.

Se Valentina Colombo vuole che sia vietato l''urfi, oppure che produca effetti civili e penali ad onta della volontà degli sposi, deve per coerenza chiedere anche una modifica al Concordato che vieti alla chiesa cattolica di celebrare matrimoni esclusivamente religiosi, ed imponga la trascrizione nello stato civile di quelli già celebrati (di cui ogni diocesi tiene apposito registro).

Per giunta, Valentina Colombo si lamenta che ci siano tribunali europei (in primo luogo quelli inglesi) che non rifiutano di tener conto della shari'a quando si occupano del diritto di famiglia delle coppie mussulmane.

Non approfondisco la situazione inglese, ma faccio notare che chi (come anche il sottoscritto) non ama che un diritto religioso contamini un tribunale laico dovrebbe mostrarsi altrettanto deciso contro la disciplina del matrimonio cattolico con effetti civili in Italia, che non è quella del Codice Civile, ma quella data dal Concordato, che impone al diritto civile italiano di cedere in parte a quello canonico cattolico romano. Anche qui la parzialità di Valentina Colombo è evidente.

Inoltre, anche in Israele sono permesse cose che in Italia sanno di poligamia. Vi cito un caso che mi è stato raccontato: un signore già sposato si innamora di un'altra donna e va a vivere con lei.

La legge ebraica consente alla moglie di rifiutare il divorzio, salvo alcuni casi - ma non questo! Perciò il signore in questione non può terminare il suo matrimonio e, per tutelare la sua compagna, firma con lei un contratto da un avvocato.

Questo perché, anche se la Bibbia ebraica consente la poligamia, la legge ebraica successiva la consente solo in casi estremi, e la legge civile israeliana la vieta.

Non giudico questo signore, ma penso che la legge israeliana gli abbia consentito una sorta di poligamia - ed anche qui non si capisce perché le cose che attirano il biasimo di Valentina Colombo quando sono fatte dai mussulmani non le fanno aprir bocca quando accadono in Israele.

Altro doppiopesismo si ha nel campo dei matrimoni misti: quando sono i mussulmani a rifiutare il matrimonio di una mussulmana con un miscredente, questo è sintomo di chiusura; quando sono Benedetto 16° e Giacomo Biffi ad esprimere forti perplessità, essi esprimono condivisibile prudenza.

E su Israele Valentina Colombo ha detto qualcosa? Eppure l'inesistenza del matrimonio civile in quel paese rende impossibili i matrimoni tra ebrei e non ebrei, e complica parecchio la vita a molti ebrei che possono sposare solo persone particolari.

Per aggirare quest'ostacolo, molte coppie si sposano all'estero e poi chiedono allo stato d'Israele il riconoscimento del matrimonio - stratagemma valido anche per il Libano, ma non per altri paesi arabi e mussulmani come l'Egitto.

Inoltre, ebrei e mussulmani condividono l'opinione secondo cui chi sposa un gentile od un miscredente abbandona la propria gente; le conseguenze che ne traggono i mussulmani non le conosco (mi rifiuto di attribuire il delitto d'onore alla religione islamica pura e semplice), ma so che la tradizione ebraica vuole che chi fa quel passo venga trattato come un morto: viene pianto, non viene più contattato, e perde la sua parte di eredità.

Uno si domanda perché mai Valentina Colombo critichi il principio ispiratore di questo trattamento solo quando lo abbracciano i mussulmani - se è biasimevole (io lo ritengo disumano), lo è indipendentemente da chi lo mette in pratica.

Altra cosa molto fastidiosa è il suo atteggiamento verso le bevande alcoliche; ad onta del divieto coranico (non privo di incoerenze, come Valentina Colombo rileva), alcuni paesi mussulmani consentono e disciplinano legalmente la produzione di vino, birra ed altri alcolici. Però Valentina Colombo usa le cifre sul consumo di alcol pro capite (in forte discesa da alcuni decenni) per valutare la penetrazione e l'influenza dell'estremismo islamico.

Ora, se anche la diminuzione del consumo di alcol fosse esclusiva opera dell'estremismo islamico, sarebbe comunque estremamente meritoria: provate a chiedere ad un poliziotto o ad uno psichiatra se è più pericoloso un coniuge od un genitore cristiano alcolizzato od uno mussulmano astemio. Sarebbe meglio riconoscere che il proprio avversario una volta ogni tanto la fa giusta :-)

La cosa più grave mi pare il denunciare il desiderio di islamizzare l'Occidente con la predicazione. Ora, lo scopo è lecito ed il mezzo pure. Valentina Colombo può contrastare l'azione dei mussulmani scrivendo tutti i libri che vuole (e guai a chi cerca d'impedirglielo!), ma poiché tratta l'Europa come un paradossale waqf cristiano, che una sorta di spirito di Yalta riserva al cristianesimo, finisce con l'invocare restrizioni della libertà religiosa paragonabili a quelle che consegnarono l'impero bizantino ai califfi.

Infatti i bizantini furono tanto intolleranti da indurre le minoranze religiose a tradire il loro paese, perché si trovarono a scegliere tra la certezza delle persecuzioni da parte di Bisanzio e la promessa di tolleranza religiosa (anche se non di libertà religiosa nel senso di Martha C. Nussbaum) da parte dei califfi.

Scelsero i califfi, e fino all'Illuminismo la loro scelta fu la migliore. Non è tornando a prima dell'Illuminismo che si può sconfiggere il fanatismo religioso.