martedì 3 novembre 2009

Il tu che libera, il tu che assoggetta

Mi permetto di criticare quest'articolo, che qui riporto per vostra comodità:

(quote)

La parola ebraica attàh, “Tu”, scandisce la preghiera e ritma le benedizioni, facendo seguito immediatamente a Barùkh (“Benedetto sei Tu…”). Anche una parola apparentemente semplice come attàh non è priva di significati teologici e richiede una particolare attenzione. Le prime due lettere di attàh sono alef e tav. Queste due lettere sono anche la prima e l’ultima dell’alfabeto ebraico; segnano dunque l’inizio e la fine e perciò - come insegnano i maestri della tradizione qabbalistica - rappresentano l’intera Creazione. Tutto ciò che è stato, è e sarà, accade attraverso le lettere alef e tav, ne porta il sigillo. Ma messe l’una accanto all’altra le due lettere danno et, la particella usata in ebraico per il complemento oggetto. In breve: alef e tav da sole si riferiscono al mondo trattandolo come un oggetto. Tutto resterebbe inanimato se in attàh non ci fosse la terza lettera, la he, quasi solo un soffio, che rinvia al Nome di D-o. La he finale è l’anima della parola attàh, è il soffio che, mentre diciamo attàh, “Tu”, ci porta all’esterno, ci fa uscire dal nostro sé, ci congiunge con l’Altro e segna così anche il passaggio dal rapporto con l’oggetto inanimato a quello con un altro soggetto o, meglio, con il Tu.

Questo vuol dire che attàh è una parola sacra. Nel Tu, che rivolgiamo quotidianamente agli altri, risuona il “Tu eterno” che rivolgiamo a D-o nella preghiera. Nel Tu di ogni frase quotidiana c’è un frammento nascosto di preghiera. Dire Tu non è pronunciare una parola qualsiasi; ma significa far riecheggiare il soffio del vocativo assoluto con cui possiamo dire “io” riconoscendo l’altro come “tu”. È la riflessione sulla parola ebraica attàh, di uso comune nell’ebraico moderno, ad aver spinto Martin Buber nel suo famoso saggio Io e tu, a fare di questa parola ebraica un’esperienza universale.

Donatella Di Cesare, filosofa

(unquote)

Donatella Di Cesare svolge una bellissima analisi, ma dimentica una cosa: in ebraico anche i pronomi di seconda persona hanno due forme - una maschile ed una femminile.

Il pronome di cui lei parla, che si pronuncia "attah" e si scrive con le lettere ebraiche .alef.tav.he, è la forma maschile del pronome "tu"; la forma femminile si pronuncia "at" e si scrive con le sole lettere .alef.tav - esattamente come la parola "et", il segnacaso dell'accusativo.

Nell'analisi di Di Cesare, è la divina .he che impedisce che l'.alef, la .tav e tutto ciò che è tra esse sottinteso riducano l'interlocutore ad oggetto dell'azione del parlante; ma questa prerogativa è della sola forma maschile.

La forma femminile non ha questa "grazia salvifica" (per mutuare il linguaggio della teologia cristiana), ed a prendere sul serio l'analisi di Di Cesare, la grammatica ebraica avrebbe assegnato alla donna il rio destino di essere l'oggetto dell'azione di chi le rivolge la parola.

Ci sarebbero dunque un "tu" (maschile) che libera ed un "tu" (femminile) che assoggetta.

La conclusione mi pare assolutamente inaccettabile, e mostra una delle conseguenze della fallacia di ritenere il linguaggio isomorfo alla realtà - o, per meglio dire, il ritenere che la struttura del linguaggio riveli come il Creatore ha progettato il mondo che ha creato.

In realtà, nel migliore dei casi il linguaggio rivela la struttura del senso comune di qualche tempo fa, in espressioni come "il sole sorge", ma non è tenuto ad adeguarsi al progresso della scienza.

Inoltre, prenderlo come fonte della morale (con analisi come questa) ci fa cadere nella fallacia naturalistica già stigmatizzata in altri post.

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