mercoledì 22 aprile 2009

Il popolo dell'Articolo 1 e la durata della sua sovranità

L'articolo 1 della Costituzione Italiana recita:

"L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione."

e vorrei approfondire la nozione di "popolo" usata in quest'articolo, con l'aiuto dell'Enciclopedia del Diritto Giuffré, ed un interessante problema posto dalla dottrina più recente, con l'aiuto di alcune riflessioni tratte dal libro "La legge e la sua giustizia" di Gustavo Zagrebelsky (il Mulino 2009).

La voce “Popolo (diritto costituzionale)” dell’Enciclopedia si preoccupa soprattutto di una cosa: dei rapporti tra il popolo e lo stato, o meglio, di come il popolo forma ed esprime la sua volontà che lo stato poi metterà in atto.

Diverso è invece il mio interesse: conoscere la composizione di questo «popolo sovrano», in quanto ci permette di stabilire se l’Italia è una democrazia civica od una democrazia etnica, nella quale esiste un’etnia con maggiori diritti delle altre.

E’ pacifico che l’Italia è una democrazia civica – come scrive l’autore della voce, Damiano Nocilla, a pagina 364 del 34° volume dell’Enciclopedia del Diritto:

(quote)

Se, infatti, non sembra possa esservi dubbio che «popolo» è una collettività di individui astrattamente uguali (art. 3 cost.), tutti titolari di quel particolare _status civitatis_ attraverso la cui attribuzione l’ordinamento stesso individua i soggetti che ne fanno parte (v. CITTADINANZA), (…)

Ai sensi dell’art. 1 cost., invece, popolo non è soltanto l’«universalità dei cittadini» - per usare la terminologia della Costituzione francese del 24 Giugno 1793 (NdA 146) – tutti assunti su un piano di astratta eguaglianza, ma anche una collettività, quale si presenta nella vita reale, avente, cioè una struttura complessa, divisa da profonde divergenze tra i suoi membri, frastagliata in altre collettività e comunità minori tenute insieme dai più vari fattori: naturali, economici, territoriali, etici, religiosi, politici, ecc. In altri termini, titolare della sovranità, ai sensi della Costituzione, è il popolo reale (o meglio, ‘anche’ il popolo reale), il quale si presenta, agli occhi di un osservatore distaccato, composto non solo di individui, ma anche di comunità intermedie; capace, da un lato, di esprimere unitariamente volontà, indirizzi, opinioni, interessi e, dall’altro, invece, profondamente diviso; sovrano, peraltro, quando si esprime in forma unitaria, ma, con ciò stesso fondando tali manifestazioni di volontà su atti singoli e particolari, imputabili teoricamente a singoli cittadini o a singole comunità, diretti, appunto, ad influenzarne gli atti sovrani.



NdA 146: all’art. 7, afferma, infatti, che «Il popolo sovrano è l’universalità dei cittadini francesi» (formula successivamente ripresa dall’art.1 della Costituzione del 1848); dove però, all’art. 4, si specifica che «Ogni nato e domiciliato in Francia, in età di ventun anni compiuti; … è ammesso all’esercizio dei diritti di cittadino francese».

(unquote)

La richiamata voce “Cittadinanza” della medesima enciclopedia riporta una curiosa notizia: che nel periodo monarchico e fascista esistevano diverse forme di cittadinanza nell’ordinamento italiano.

Infatti, oltre ai “cittadini italiani metropolitani” esistevano “cittadini italiani delle Isole egee”, “cittadini italiani della Libia”, “sudditi dell’Africa orientale italiana”. Non erano cittadini italiani i somali durante l’amministrazione fiduciaria italiana (1950-1960), ma potevano vantare alcuni diritti nei confronti del nostro paese.

Come se non fosse bastato questo ginepraio normativo, fino al 1912 il nostro ordinamento consentiva di naturalizzare gli stranieri senza necessariamente conceder loro i diritti politici; e fino al 1934 distingueva tra “grande” e “piccola” cittadinanza. La “piccola” cittadinanza era concessa a stranieri con vincoli di antica origine o devozione all’Italia, ed escludeva i diritti politici e l’obbligo di leva. I figli di un “piccolo cittadino”, assolvendo alla leva, acquisivano la “grande cittadinanza”.

Ora queste distinzioni sono state abolite, anche con effetto retroattivo: chi aveva queste cittadinanze speciali viene ora riconosciuto cittadino italiano a pieno titolo (sempreché non siano intervenute cause di perdita della cittadinanza).

Si può argomentare che in Italia esiste una pluralità di popoli, ma questo non ha conseguenze negative per nessuno.

Innanzitutto, la nozione romana di popolo è quella di “comunità di una moltitudine associata nel consenso del diritto e nell’utilità comune” (Cicerone, Repubblica, 1, 25, 39), nozione espansasi nel medioevo e sistemata infine da Baldo degli Ubaldi, che commentò D. 1, 1, 9 scrivendo: “Tutti i popoli sono del diritto delle genti, ergo il regime del popolo è del diritto delle genti: ma non può esserci un regime senza leggi e statuti, e proprio per questo ciò che viene ad essere un popolo, ha di conseguenza un proprio regime, proprio come ogni animale è retto dal proprio spirito e dalla propria anima”.

Pertanto, qualsiasi comunità che si sia dotata nella lunga storia italiana di un ordinamento giuridico può ambire a chiamarsi “popolo”, fosse stata anche piccola come una parrocchia – e buona parte della voce “Popolo (diritto intermedio)” della medesima Enciclopedia, redatta da Giovanni Santini, riporta l’evoluzione diacronica di queste comunità.

Il popolo italiano, quindi, non si può vedere soltanto come l’intera “universalità dei cittadini”; ma anche come una gerarchia di popoli dotati di potestà amministrativa locale; oppure come un “insieme delle parti” di quest’universalità, ognuna delle quali ha creato un ordinamento giuridico proprio (per esempio, lo statuto di un’associazione, di una confessione religiosa, di un partito politico, di un sindacato, ecc.) e può perciò chiamarsi “popolo” senza retorica, e senza far arricciare il naso né a Cicerone né a Baldo.

Il diritto italiano vigente consente la cittadinanza plurima, il che consente ad un italiano di appartenere a diversi popoli oltre all’“universalità dei cittadini” italiani senza subirne pregiudizio.
Riassumendo: non c’è modo di trasformare l’Italia in uno stato etnico senza ricorrere ad un colpo di stato che abroghi la Costituzione vigente e la sostituisca con una che riduca fortemente le libertà ed i diritti di tutti. Chi vuol stabilire equivalenze tra l’Articolo 1 della Costituzione italiana e l'ordinamento di un paese a democrazia etnica (come Israele) sciupa il suo tempo.

Dopo essermi basato sull’Enciclopedia del Diritto, ora devo basarmi su un paio di considerazioni di Gustavo Zagrebelsky, ex giudice costituzionale, presidente emerito della Consulta.

Nel suo libro, meno articolato da questo punto di vista dell’Enciclopedia, egli scrive alle pagine 149 e 150:

(quote)

Istantaneità del potere costituente. Per risolvere, almeno dal punto di vista interno all’ordinamento, il problema della stabilità costituzionale e venire incontro all’aspirazione della Costituzione di valere illimitatamente nel tempo, occorreva fare un passo in più: proclamare che il potere costituente (o delegante, secondo la versione americana), una volta esaurita la sua funzione originaria, non può più essere revocato; in altri termini, che _il suo potere sovrano si esaurisce_. Così, per esempio, l’art. 1, secondo comma, della Costituzione italiana, nello stabilire che «la sovranità appartiene al popolo, che l’esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», nel momento stesso in cui riconosce la sovranità popolare, la nega in quanto sovranità, cioè in quanto potere che non riconosce vincoli a regole di validità. I vincoli, infatti, sono posti: «le forme e i limiti costituzionali». Onde si è potuto coerentemente sostenere, nella prospettiva del diritto costituzionale positivo, che, con l’entrata in vigore della Costituzione, il concetto di sovranità concreta, cioè riferito a un soggetto storico quale il «popolo», è morto e il suo posto è preso da un soggetto astratto, la Costituzione (NdA 25). Non esiste dunque più – sempre dal punto di vista interno all’ordinamento: dall’esterno, cioè con mezzi _contra ius_, tutto è sempre possibile – la possibilità di esercitare un potere che si è esaurito; non esiste più la possibilità di deliberare sulla Costituzione come tale, ma esiste solo quella di deliberare leggi che la riguardano. Le leggi di revisione costituzionale non sono dunque «Costituzione» nuova, ma modificazioni della Costituzione che esiste e che continua ad esistere. Leggi che volessero essere costituenti e non costituite, mirassero cioè a sovvertire la Costituzione e non a modificarla semplicemente, sarebbero illegittime, anche se approvate in forma costituzionale.


NdA 25: V. Onida, La Costituzione, 2^ ed., Bologna, il Mulino, 2007, p. 21

(unquote)

Direi che l’argomentazione di Zagrebelsky (ed Onida, altro ex-giudice costituzionale e Presidente emerito della Consulta) è conclusiva: il popolo non è più sovrano nel senso di “colui che non riconosce un'autorità superiore”, perché dandosi una Costituzione si è posto sotto l’autorità della Legge.

Ma c’è un’altra cosa da dire: Zagrebelsky distingue tra “Costituzioni che costituiscono” e “Costituzioni che statuiscono”, e la differenza è che una “Costituzione che costituisce” nasce dopo la rottura dell’ordinamento preesistente – come accadde in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale; mentre una “Costituzione che statuisce” si limita a mettere per iscritto le caratteristiche dell’ordinamento vigente, comunque sia nato.

Applicando queste nozioni all’esperienza israeliana, potremmo dire che l’ordinamento vigente nel paese è figlio della Guerra d’Indipendenza, nel bene e nel male (il male sta nelle persistenti discriminazioni a danno dei non-ebrei), senza che fosse possibile raggiungere un compromesso tra le varie forze sociali e politiche israeliane capace di dare al paese una “Costituzione che costituisce” al momento giusto, cioè prima che l’ordinamento si consolidasse.

Le “leggi fondamentali” varate in Israele nel corso del tempo sarebbero quindi delle “leggi costituzionali”, che non mutano l’ordinamento costituzionale vigente, ma lo stabilizzano mettendo per iscritto le parti su cui viene trovato un accordo soddisfacente.

Ma questa descrizione non è del tutto adeguata, perché non spiega due cose.

Innanzitutto, nel 1949 fu eletta in Israele un'Assemblea Costituente che dopo due giorni decise di cambiar nome in "Prima Knesset", e nel 1950 fu approvata la cosiddetta "proposta Harari" (dal nome del deputato Yizhar Harari) che attribuì alla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset il compito di preparare una Costituzione sotto forma di Leggi Fondamentali sugli argomenti su cui volta per volta si sarebbe trovato un accordo, leggi che la Knesset avrebbe approvato in seduta plenaria.

La proposta Hariri ha fatto in pratica della Knesset un'Assemblea Costituente permanente, e rende Israele un paese in perenne stagione costituente. L'impossibilità di trovare un compromesso su una Costituzione da promulgare per intero ha significato anche l'impossibilità per il popolo di cedere ad essa i suoi poteri sovrani dopo la promulgazione.

Che la situazione sia ancora fluida lo ha mostrato, tra l'altro, il fallimento del tentativo di fare il “grande salto” e dare ad Israele una Costituzione completa come regalo per il suo 60° Compleanno (14 Maggio 2008 secondo il calendario gregoriano, 8 Maggio 2008 era la data indicata dal calendario ebraico).

Infatti, non ci sarebbe dovuta essere alcuna difficoltà a redigere una “Costituzione che statuisce”, cioè che fotografasse l’ordinamento israeliano vigente. Così non è stato: l'ordinamento costituzionale israeliano è ancora fluido perché il popolo non ha ceduto i suoi poteri sovrani.

Negli ultimi anni la Knesset da una parte, e la Corte Suprema dall’altra, hanno cercato di limitare questi poteri: alcune “leggi fondamentali” israeliane prevedono che sia necessaria una “maggioranza rinforzata” per modificarle od abrogarle, e la Corte Suprema, sotto la presidenza dello stimatissimo Aharon Barak (lo cita molte volte con ammirazione anche Zagrebelsky), ha accresciuto notevolmente i suoi poteri – e non bisogna essere costituzionalisti per capire che il potere di una magistratura indipendente è (per fortuna) a scapito di quello del popolo e dei suoi rappresentanti.

Ma queste operazioni non potevano coartare completamente i poteri sovrani del popolo; e che Israele viva ancora una prolungata “stagione costituente” mi pare evidenziato da un aspetto del dibattito che si svolse nella scorsa legislatura: l’ex-ministro Levy, del Partito Nazional-Religioso, affermò che non poteva votare una Costituzione che affermasse il principio di eguaglianza, in quanto contrario alla religione ebraica.

Però la Corte Suprema israeliana era riuscita, sotto la presidenza Barak, a far riconoscere l’eguaglianza come principio fondamentale per via giurisprudenziale. Una Costituzione fatta come piaceva a Levy avrebbe cassato quest’importante conquista, dimostrando che essa non sarebbe stata una mera “statuizione” dell’ordinamento vigente, ma la “costituzione” di un ordinamento nuovo.

Questo fu il bacio della morte del tentativo, perché gli israeliani che invece ci tenevano al principio dell’eguaglianza preferirono mantenere la situazione attuale. Come ho già scritto, l’impossibilità di un compromesso su questo ed altri problemi fa di Israele un paese in perenne stagione costituente - Zagrebelsky lo chiama una "democrazia conflittuale".

Resta un problema da affrontare: qual è il posto degli arabi nell’attuale ordinamento? Quello degli sconfitti, tanto odiati che il paese preferisce buttar via il 6% del suo PIL (calcoli del passato governo Olmert) al conceder loro la parità dei diritti e la piena integrazione. Per avere un termine di confronto, si stima che le discriminazioni di cui soffrono le donne in Italia costino al paese il 3% del PIL.

Israele resta una democrazia etnica (il termine è dovuto a Sammy Smooha, professore di Sociologia all'Università di Haifa, Premio Israele 2008), in cui la combinazione di “cittadinanza”, “nazionalità” e “religione”, meticolosamente registrate negli uffici di Stato Civile, ha l’effetto di creare “cittadinanze speciali” simili a quelle dell’Italia prebellica.

Un'obiezione che viene spesso sollevata è che non si può analizzare l'ordinamento giuridico israeliano con la dogmatica elaborata in Italia; a parte il fatto che l'obiezione viene smentita dallo stesso comportamento di chi esegue paragoni fuorvianti tra la definizione di popolo implicita nell'Articolo 1 della Costituzione italiana e quella di Israele come stato ebraico spesso usata dalla Corte Suprema d'Israele, Gustavo Zagrebelsky ha osservato che:

1) L'argomento di GWF Hegel (per cui ogni Costituzione è frutto della storia di un popolo) e quello di Vincenzo Cuoco (per cui la Costituzione è come un vestito che dev'essere fatto su misura) è ora considerato superato.

A partire dal 1972, ogni tre anni si riunisce infatti una Conferenza delle Corti Costituzionali d'Europa, di cui paesi fondatori furono l'Austria (il primo paese al mondo ad avere una Corte costituzionale distinta dalla Corte suprema), la Germania, l'Italia, e la Jugoslavia.

Inoltre, esistono corti sovranazionali di giustizia costituzionale, come la Corte di Giustizia Europea, la Corte interamericana de derechos humanos, la Cour africaine des droits de l'homme e des peuples, a dimostrazione che il diritto costituzionale dei vari paesi del mondo si sta armonizzando, e che una corte sovrannazionale non rappresenta l'imposizione di un diritto estraneo, ma un'ulteriore baluardo della Costituzione dei paesi aderenti.

Ma la prova decisiva è data dal fatto che le corti costituzionali (o le corti supreme) si citano a vicenda: una sentenza della Corte suprema israeliana può citare tranquillamente una sentenza della Corte suprema americana o della Corte di Giustizia Europea anche se non si tratta di precedenti vincolanti per essa, in quanto tali sentenze esprimono comunque un punto di vista condiviso in tutto il mondo.

Il caso più emblematico è l'opinione dissenziente del Giudice della Corte Suprema USA Stephen Gerald Breyer (guarda caso, ebreo) nel doppio caso Knight v. Florida (98-9741) & Moore v. Nebraska (99-5291). Come potete leggere qui (scusate, non ho il tempo di tradurre):

(quote)

At the same time, the longer the delay, the weaker the justification for imposing the death penalty in terms of punishment’s basic retributive or deterrent purposes. Lackey, supra, at 1046. Nor can one justify lengthy delays by reference to constitutional tradition, for our Constitution was written at a time when delay between sentencing and execution could be measured in days or weeks, not decades. See Pratt v. Attorney General of Jamaica, [1994] 2 A. C. 1, 18, 4 All E. R. 769, 773 (P. C. 1993) (en banc) (Great Britain’s “Murder Act” of 1751 prescribed that execution take place on the next day but one after sentence).

A growing number of courts outside the United States–courts that accept or assume the lawfulness of the death penalty–have held that lengthy delay in administering a lawful death penalty renders ultimate execution inhuman, degrading, or unusually cruel. In Pratt v. Attorney General of Jamaica, supra, for example, the Privy Council considered whether Jamaica lawfully could execute two prisoners held for 14 years after sentencing. The Council noted that Jamaican law authorized the death penalty and that the United Nations Committee on Human Rights has written that “ ‘capital punishment is not per se unlawful under the [Human Rights] Covenant.’ ” Id., at 26, 4 All E. R., at 780. But the Privy Council concluded that it was an “inhuman act to keep a man facing the agony of execution over a long extended period of time,” id., at 29, 4 All E. R., at 783, and the delay of 14 years was “shocking,” id., at 33, 4 All E. R., at 786. It held that the delay (and presumptively any delay of more than five years) was “ ‘inhuman or degrading punishment or other treatment’ ” forbidden by Jamaica’s Constitution unless “due entirely to the fault of the accused.” Id., at 29, 4 All E. R., at 783.

The Supreme Court of India has held that an appellate court, which itself has authority to sentence, must take account of delay when deciding whether to impose a death penalty. Sher Singh v. State of Punjab, A. I. R. 1983 S. C. 465. A condemned prisoner may ask whether it is “just and fair” to permit execution in instances of “[p]rolonged delay.” Id., at 470—471. The Supreme Court of Zimbabwe, after surveying holdings of many foreign courts, concluded that delays of five and six years were “inordinate” and constituted “ ‘torture or . . . inhuman or degrading punishment or other such treatment.’ ” Catholic Commission for Justice and Peace in Zimbabwe v. Attorney-General, [1993] 1 Zimb. L. R. 239, 240, 269 (S) (Aug. 4, 1999), http://www.law.wits.ac.za/salr/catholic.html . And the European Court of Human Rights, interpreting the European Convention on Human Rights, noted the convention did not forbid capital punishment. But, in the Court’s view, the convention nonetheless prohibited the United Kingdom from extraditing a potential defendant to the Commonwealth of Virginia–in large part because the 6- to 8-year delay that typically accompanied a death sentence amounts to “cruel, inhuman, [or] degrading treatment or punishment” forbidden by the convention. Soering v. United Kingdom, 11 Eur. Ct. H. R. (ser. A), pp. 439, 478, ¶111 (1989).

Not all foreign authority reaches the same conclusion. The Supreme Court of Canada, for example, held that Canadian constitutional standards, though roughly similar to those of the European Convention on Human Rights, did not bar extradition to the United States of a defendant facing the death penalty. Kindler v. Minister of Justice, [1991] 2 S. C. R. 779, 838 (joint opinion). And the United Nations Human Rights Committee has written that a delay of 10 years does not necessarily violate roughly similar standards set forth in the Universal Declaration of Human Rights. Views adopted by the United Nations Human Rights Committee, 44th Sess., Mar. 30, 1992, In re: Barrett v. Jamaica (Nos. 270/1988 and 271/1988) §8.4. Given the closeness of the Canadian Court’s decision (4 to 3) and language that the United Nations Human Rights Committee used to describe the ten-year delay (“disturbingly long”), one cannot be certain what position those bodies would take in respect to delays of 19 and 24 years.

Obviously this foreign authority does not bind us. After all, we are interpreting a “Constitution for the United States of America.” Thompson v. Oklahoma, 487 U.S. 815, 868, n. 4 (1988) (Scalia, J., dissenting). And indeed, after Soering, the United States Senate insisted on reservations to language imposing similar standards in various human rights treaties, specifying, for example, that the language in question did not “restrict or prohibit the United States from applying the death penalty consistent with the … Constitution, including any constitutional period of confinement prior to the imposition of the death penalty.” 136 Cong. Rec. 36192—36199 (Oct. 27, 1990) (U.S. Senate Resolution of Advice and Consent to Ratification of the Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment).

Nonetheless, the treaty reservations say nothing about whether a particular “period of confinement” is “constitutional.” And this Court has long considered as relevant and informative the way in which foreign courts have applied standards roughly comparable to our own constitutional standards in roughly comparable circumstances. In doing so, the Court has found particularly instructive opinions of former Commonwealth nations insofar as those opinions reflect a legal tradition that also underlies our own Eighth Amendment. Thompson v. Oklahoma, supra, at 830—831 (opinion of Stevens, J.) (considering practices of Anglo-American nations regarding executing juveniles); Enmund v. Florida, 458 U.S. 782, 796—797, n. 22 (1982) (noting that the doctrine of felony murder has been eliminated or restricted in England, India, Canada, and a “number of other Commonwealth countries”); Coker v. Georgia, 433 U.S. 584, 596, n. 10 (1977) (observing that only 3 of 60 nations surveyed in 1965 retained the death penalty for rape); Trop v. Dulles, 356 U.S. 86, 102—103 (1958) (noting that only 2 of 84 countries surveyed imposed denationalization as a penalty for desertion). See also Washington v. Glucksberg, 521 U.S. 702, 710, n. 8, and 718—719, n. 16 (1997) (surveying other nations’ laws regarding assisted suicide); Culombe v. Connecticut, 367 U.S. 568, 583—584, n. 25, and 588 (1961) (considering English practice concerning police interrogation of suspects); Kilbourn v. Thompson, 103 U.S. 168, 183—189 (1881) (referring to the practices of Parliament in determining whether the House of Representatives has the power to hold a witness in contempt). Willingness to consider foreign judicial views in comparable cases is not surprising in a Nation that from its birth has given a “decent respect to the opinions of mankind.”

In these cases, the foreign courts I have mentioned have considered roughly comparable questions under roughly comparable legal standards. Each court has held or assumed that those standards permit application of the death penalty itself. Consequently, I believe their views are useful even though not binding.

(unquote)

Il Giudice Stephen Gerald Breyer cita le sentenze delle Corti supreme d'Inghilterra, India, Canada, Zimbabwe (cosa che ha stupito molti giuristi in tutto il mondo, compreso Zagrebelsky) e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in quanto «... questa Corte da molto tempo ritiene rilevante ed istruttivo il modo in cui dei tribunali stranieri hanno applicato degli standard grossolanamente confrontabili ai nostri standard costituzionali in circostanza grossolanamente confrontabili. Così facendo, la Corte ha trovato particolarmente istruttive le opinioni delle ex nazioni del Commonwealth in quanto tali opinioni riflettono una tradizione giuridica che sottostà anche al nostro Ottavo Emendamento . (...) La disposizione a considerare opinioni giuridiche straniere in casi confrontabili non deve sorprendere una nazione che sin dalla nascita ha dato un "appropriato rispetto alle opinioni dell'umanità.”»

Quindi, un buon testo di diritto costituzionale italiano illumina (anche se non spiega certo esaurientemente) anche il diritto costituzionale di un paese straniero, e viceversa. Se non si arriva alla situazione della matematica (in cui tutti i teoremi valgono ovunque), si arriva ad una situazione simile a quella della filosofia, in cui le buone idee hanno circolazione universale - con buona pace di Hegel e Cuoco, nemici giurati del diritto costituzionale comparato.

E' ormai pacifico che l'interdipendenza degli stati del mondo non si ha soltanto a livello economico, infrastrutturale e culturale, ma anche a livello di diritto costituzionale, in quanto ogni lesione dei diritti umani in un paese li mette in pericolo in tutto il mondo.

Zagrebelsky parla di "globalizzazione costituzionale", in cui i costituenti di un paese sono vincolati da quello che fanno i colleghi degli altri paesi.

2) Zagrebelsky distingue le Costituzioni in "moniste, dualiste, pluraliste", e si ripromettere di sviluppare una "teoria dei numeri" in proposito - numeri grammaticali, s'intende, corrispondenti al "singolare, duale, plurale" della lingua greca e delle lingue semitiche.

Le Costituzioni moniste sono quelle degli stati assoluti; Zagrebelsky ricorda che anche una democrazia parlamentare può essere uno stato assoluto, qualora il suo Parlamento sia l'unico effettivo detentore del potere, e non trovi contrappesi non solo nelle istituzioni, ma nemmeno nella società civile.

Negli stati monisti, la Costituzione, scritta od affidata alla tradizione, è lo strumento di dominio del sovrano (sia esso un singolo od un'assemblea elettiva), e presuppone una società fortemente omogenea di cui il sovrano esprime gli interessi. Non sono previsti conflitti tra società civile e sovrano; qualora si verifichino, assumono la forma della sovversione e se ne occupano i tribunali penali o militari, non una Corte costituzionale.

Le Costituzioni dualiste si presentano normalmente nella forma della "monarchia costituzionale", in cui i soggetti del potere sono due: il Monarca ed il Parlamento, espressione questo di una classe sociale privilegiata.

Queste Costituzioni sono un'arena in cui Re e Parlamento lottano continuamente per la supremazia, e si può interpretare da questo punto di vista l'evoluzione costituzionale del Regno di Sardegna e del Regno d'Italia, in cui il Parlamento ha via via rosicchiato al Re sempre maggiori poteri fino alla Prima Guerra Mondiale ed alla catastrofe fascista.

Non c'è bisogno qui di un organo di garanzia costituzionale, perché sia il Re che il Parlamento sono garantiti l'uno nei confronti dell'altro dal loro potere politico: il Parlamento concede o revoca la fiducia al governo del Re, ed il Re può rifiutare la promulgazione di una legge o sciogliere il Parlamento.

La stagione delle monarchie costituzionali è stata l'Europa tra il 1848 e la Prima Guerra Mondiale, e Zagrebelsky spiega questo con una ragione squisitamente politica: l'instabile alleanza tra il Re ed il Parlamento eletto con sistema censitario aveva per nemico comune il proletariato.
Finché è stato possibile fare questo gioco dei due contro uno, le monarchie costituzionali sono durate; dopo si è dovuto scegliere tra degenerare nel monismo totalitario fascista ed evolversi verso una democrazia pluralista.

Le Costituzioni pluraliste nascono quando si è obbligati ad ammettere che il popolo non esprime una "volontà generale", come voleva Rousseau, ma è diviso in numerose formazioni sociali. La politica in questa situazione diventa l'arte del compromesso, e la Costituzione è quella che garantisce il compromesso, ovvero che chi è ora in maggioranza non sopraffarà chi è ora in minoranza.

In questa situazione il pericolo più grave viene dal Parlamento, che legiferando a maggioranza può travolgere le minoranze e le autonomie, ed invadere il campo degli altri poteri dello stato - e la Corte Costituzionale deve impedire questo.

Non è un compito facile, perché la Corte deve soprattutto dimostrare che il compromesso che ha dato vita alla Costituzione è ancora valido e vitale, ed i cittadini possono ancora condividerlo. Questo richiede sensibilità non solo giuridica, ma anche politica ed etica - ed è per questo che le Corti costituzionali non sono composte solo di giudici togati (come le Corti supreme o di Cassazione), ma anche di "laici" nominati dal Parlamento o dal Capo dello Stato.

3) Si ricorda ancora il contrasto che nel 1928 oppose Carl Schmitt ad Hans Kelsen, a proposito dell'opportunità di creare anche in Germania (come si era già fatto in Austria e Cecoslovacchia) una Corte costituzionale; riassumendo più di quanto faccia Zagrebelsky, il contrasto tra i due si può ricondurre a quello tra monismo e pluralismo.

Schmitt concepiva la Costituzione come unità sociale e politica, basata sulla sovranità. In quest'unità non c'è posto per il pluralismo sociale ed il compromesso politico, e l'obbiettivo di Schmitt è creare uno "stato totale" che non sia separato dalla società civile, e che garantisca l'unità politica del popolo contro le forze ostili allo stato (o contro quelle irriducibili all'unità politica del popolo).

Pertanto Schmitt non propone una Corte costituzionale che dia voce al pluralismo sociale ed alle sue rivendicazioni verso lo stato, ma un "Custode della costituzione" che difenda con essa l'unità politica del popolo.

Kelsen risponde sostenendo il pluralismo sociale e la politica come compromesso. Ma queste cose impediscono di considerare il popolo come un soggetto unitario titolare della sovranità, ed inducono ad attribuire la sovranità invece ad un ente astratto come la norma giuridica fondamentale, alias la Costituzione, che regolamenta il compromesso e lo rende gestibile da parte dello stato con norme e procedure adatte.

Zagrebelsky simpatizza per Kelsen, ma non vuole far torto a Schmitt, e conclude che la concezione di Kelsen è adatta ai tempi normali della vita di uno stato, quella di Schmitt ai tempi eccezionali in cui si rischia la rottura dell'ordinamento.

Il messaggio che traggo è questo: è possibile concepire la politica alla maniera di Schmitt, ovvero come un agire basato sulla distinzione tra amico e nemico, ma questa concezione è incompatibile con la normale vita di uno stato democratico, ed a questa è molto più adatta la concezione di Kelsen, d'impronta liberaldemocratica.

Chi insiste a concepire Israele come uno stato caratterizzato dalla "sovranità ebraica" finisce con l'applicare alla realtà del paese le concezioni politiche di Carl Schmitt, che non per caso avrebbe sostenuto poi il nazismo, e dà argomenti a chi considera Israele uno "Herrenvolk", uno stato con un "popolo di signori" (e, correlativamente, uno o più "popoli di sudditi").

Una democrazia etnica non è il modello di stato pluralista che aveva in mente l'ebreo Hans Kelsen, ma può evolvere in esso (è questa la principale differenza con lo "Herrenvolk", che invece rifiuta di evolversi positivamente). Presupposto fondamentale è stipulare i compromessi che consentano di promulgare una Costituzione scritta a cui cedere la sovranità popolare.

Ma è un'impresa che non tollera forzature, ed ha bisogno di molta pazienza.

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