In altro articolo di questa rivista si parla di un gruppo di genitori omosessuali e di omosessuali, che fa un ottimo lavoro.
Ma a leggere solo quell’articolo, si può pensare che genitorialità ed omosessualità si incontrino solo per caso – perché il genitore etero ha un figlio od una figlia omo, oppure perché una persona che vivendo da etero ha generato dei figli si dichiara infine omo.
In realtà, il desiderare dei figli è indipendente dall’orientamento sessuale (anche se è stato notato che un desiderio irresistibile di avere un bimbo può essere tra i segni di una non piena accettazione della propria omosessualità) e per molte persone l’essere gay o lesbiche significa anche trovare ostacoli supplementari al proprio desiderio di maternità o paternità. Questi ostacoli complicano anche il “coming out” in famiglia, perché molti genitori si aspettano che i loro figli diano loro dei nipoti, e per loro scoprire che il proprio figlio è gay significa anche capire che è molto improbabile che li accontenti.
Meno grave, dal loro punto di vista, è il caso della figlia lesbica, perché è più facile che le lesbiche trovino il modo di diventare comunque madri, specialmente in paesi meno idioti del nostro, che consentono l’inseminazione artificiale alle donne nubili. Questa differenza tra gay e lesbiche in quanto a prospettive di paternità e maternità spiega anche perché molte società tollerino l’omosessualità femminile più di quella maschile.
La principale opposizione alle famiglie unisessuali, in cui ambo i genitori siano del medesimo sesso, viene motivata dall’ideale per cui ogni bambino avrebbe diritto a due genitori di sesso diverso, per conoscere attraverso di loro le realtà del maschile e del femminile.
In realtà, chiunque di voi conosce casi in cui quest’ideale viene messo da parte. Per esempio, nei paesi cattolici le vedove venivano diffidate dal risposarsi, ed in alcune zone della Sardegna questo è tuttora considerato sconveniente. Se per il benessere dei figli fosse indispensabile avere due genitori di diverso sesso, le vedove con figli verrebbero ovunque e da tempo immemorabile costrette dai loro parenti a cercarsi un altro marito!
Io conosco invece vedove che hanno rinunciato a risposarsi perché convinte di fare così l’interesse dei loro figli – temendo, e non senza ragione, che il patrigno sarebbe stato il loro rivale anziché il loro sostegno. E conosco il caso di un illustre vedovo: Karol Woytila senior, padre di colui che sarebbe diventato Papa Giovanni Paolo 2°: questi rinunciò a risposarsi per meglio allevare i figli – e se uno di loro è diventato papa, pur avendo perso la mamma a nove anni, devo dire che il babbo ha avuto grande successo.
Avere due padri o due madri non è qualitativamente diverso dall’avere un padre vedovo od una madre vedova – quantitativamente può essere assai meglio, perché due genitori significano più denaro e più tempo. E non sono infatti mancati degli studi che hanno mostrato che i figli di una coppia gay o lesbica possono avere una marcia in più rispetto agli altri.
Inoltre, le persone che dicono “no alle famiglie unisessuali” spesso cadono nell’errore di assolutizzare la differenza di genere, come se fosse la più grande che due persone possono avere, e nell’ingenuità di presupporre che più grandi sono le differenze tra due genitori, più positiva è la varietà di esperienze a cui sono esposti i figli.
Eppure la maggior parte delle culture, pur vietando il matrimonio tra i parenti di primo grado, prescrive il matrimonio tra persone del medesimo clan o gruppo di clan, con regole anche ingegnose che trovate in un buon testo di antropologia; ed anche quando si passa dalle “strutture elementari della parentela” (in cui sono queste regole a predeterminare il coniuge) a quelle “complesse”, ci sono dei forti limiti nella scelta del partner.
Per esempio, la religione ebraica vieta di sposare persone non ebree; la religione cristiana condiziona il matrimonio con non battezzati ad una dispensa; un’interpretazione dell’islam consente all’uomo di sposare una monoteista, ma tutte vietano alla donna mussulmana di sposare un non mussulmano.
I tradizionalisti di queste religioni (come i rabbini ortodossi) ammettono candidamente che per loro è più importante la sopravvivenza del loro gruppo etnico-religioso della felicità dei coniugi, e questo motiva i divieti; i meno tradizionalisti (come l’imam di Verona, che così si espresse diversi anni fa in una conferenza) fanno notare che se le differenze tra i coniugi sono troppo grandi, la solidità del matrimonio viene messa in forse, e paventano pure il rischio che i figli crescano con un senso dell’identità incerto.
A dar retta a questi ultimi (la mia opinione è che ogni coppia è un caso a sé, e quindi debbano essere i nubendi a decidere), ci sono differenze più grandi e meno gestibili di quella di genere; e la comune osservazione di fronte ad un matrimonio fallito secondo cui è stata la troppa diversità nei caratteri dei coniugi a condannare la coppia fa pensare che le differenze tra i coniugi non siano sempre di giovamento. J
Qualcuno ribatterà: non si possono mettere sullo stesso piano le differenze culturalmente determinate e la differenza sessuale. Purtroppo, questa persona non si rende conto che nulla in natura ha un significato diverso da quello che noi siamo disposti a riconoscergli. Non è il nascere con un pene che ci fa assumere un ruolo maschile, né il nascere con una vulva che ci fa assumere un ruolo femminile – questi dettagli anatomici sono solo il pretesto per imporci dei ruoli culturalmente determinati.
La differenza di genere non ha uno status ontologico diverso dalla differenza di religione o di lingua o di nazionalità – come non è indispensabile che due persone parlino diverse lingue, professino o pratichino diverse religioni, od abbiano due diversi passaporti per unirsi in matrimonio, uno felice con figli felici, così non deve essere necessario che abbiano diverso genere.
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