Mi piacciono le donne (se anche la mia bocca tacesse, lo griderebbero gli occhi), ma sono iscritto ad un club GLBT veronese, i cui iscritti sono perlopiù eterosessuali, in quanto sembra l'unica associazione che riesce a fare opposizione al sindaco di Verona Flavio Tosi ed alla sua masnada di ignoranti matricolati.
Purtroppo, "quandoquam et bonus Homerus dormitat", ed oggi è stata una di quelle volte in cui il club veronese si è appisolato: ha infatti organizzato la presentazione di un libro di una ricercatrice universitaria italiana, che interpretava il conflitto israelo-palestinese come un conflitto di identità - in cui la sempre maggior divaricazione fra post-sionisti ed ultra-sionisti veniva risolta dal governo con delle fughe in avanti fatte coinvolgendo il paese in nuove guerre.
L'idea non mi pareva sbagliata, visto che ho anch'io avuto la sensazione che la guerra di Gaza fosse rivolta, più che contro il palestinese di Gaza, contro le persone che cominciano a dubitare della giustezza della politica israeliana successiva al 1967 - ed ho comprato il libro e l'ho fatto firmare dall'autrice.
Purtroppo, quando ho sentito parlare l'autrice, mi sono dovuto ricredere. Infatti, non solo ha detto che Israele è uno stato truffa (?) e che alla sua nascita c'è stata una colossale violazione della legalità internazionale (perché, a suo dire, l'ONU non poteva decretare la nascita di uno stato), ma ha anche detto che l'ebraico moderno è una lingua artificiale, sviluppata a tavolino dopo l'autoproclamazione dello stato d'Israele, e che, essendo stata inadeguata alle esigenze dell'oggi, ha saccheggiato dall'arabo molte parole e modi di dire.
A questo punto mi sono alzato, ho preso in mano la giacca, il borsello con i miei due telefonini, il libro di Miguel Asìn Palacios "Dante e l'islam" che stavo leggendo, e me ne sono andato lasciando a bella posta lì sulla sedia il libro che pure avevo pagato e fatto firmare dall'autrice.
Di Israele uno può dire quello che vuole, purché dica cose vere e limiti l'opinabile ai giudizi (come quello sull'eccesso di potere del Consiglio di Sicurezza ONU che il 29 Novembre 1947 approvò la risoluzione 181); però quando si raccontano panzane, ho tutto il diritto di arrabbiarmi.
Theodor Herzl non aveva previsto la rinascita dell'ebraico - infatti nella sua opera "Lo stato ebraico" preconizza che in questo stato si parlerà tedesco - ma Eli'ezer Ben Yehuda (1858-1922) riuscì a compiere il miracolo: lanciò la sua iniziativa con due articoli di giornale nel 1880, nel 1881 si trasferì nell'attuale Israele, dove già dei pionieri avevano iniziato a rianimare l'ebraico, e nel 1890 fondò il Comitato per la Lingua Ebraica (ora "Accademia per la Lingua Ebraica") in modo da dare alla lingua ciò che mancava.
Ma il maggior contributo alla causa fu il suo gigantesco dizionario in 17 volumi, continuato dalla moglie e dal figlio dopo la sua morte (nel 1922). E che il suo lavoro fosse già praticamente riuscito lo dimostra il fatto che le autorità del mandato britannico sulla Palestina riconobbero l'ebraico come una delle tre lingue ufficiali (le altre due erano l'inglese e l'arabo) il 29 Novembre 1922.
Questo significava che non solo le pubblicazioni del movimento sionista, ma tutte le disposizioni e comunicazioni del mandato dovevano essere redatte anche in ebraico, il quale, a sua volta, se non ne era già provvisto, doveva dotarsi volta per volta di tutte le parole indispensabili alla vita contemporanea.
Qundi, dire che l'ebraico contemporaneo è stato sviluppato a tavolino dopo il 14 Maggio 1948, giorno della proclamazione dell'indipendenza d'Israele, è un mostruoso falso storico. Per giunta, di quasi tutte le parole ebraiche aggiunte in epoca moderna si conoscono sia la data d'introduzione che la persona che le propose - quindi è molto facile dimostrare che moltissime parole sono state introdotte prima della Seconda Guerra Mondiale.
Si conoscono anche le mode che seguirono i lessicografi: poiché l'ebraico è una lingua semitica, le parole che non si trovavano né nella Bibbia né nella sterminata letteratura postbiblica furono in un primo tempo prese dall'arabo. Non c'è alcuna vergogna in questo: nessuno si vergogna a coniare parole italiane, inglesi o francesi a partire da parole greche o latine - cioè di altre illustri lingue indoeuropee.
Ma la moda dell'arabo cessò nel 1929: imprestare parole dall'arabo significava dimostrare amicizia verso gli arabi e volontà di progettare un futuro comune - tutti propositi che (me ne dispiace) furono spazzati via dal pogrom di Hebron di quell'anno. Da allora in poi gli imprestiti vennero dalle lingue europee.
Per quanto riguarda l'accusa di aver "saccheggiato" anche i modi di dire dall'arabo, faccio notare che la grammatica dell'ebraico biblico è molto più simile a quella dell'arabo classico (immutata dai tempi di Maometto) di quanto non lo sia quella dell'ebraico contemporaneo, che si è considerevolmente semplificata.
Inoltre, l'affermazione secondo cui l'ebraico non è riuscito ad unificare linguisticamente nemmeno gli ebrei israeliani (come proverebbe il caso degli ebrei russi) è sostanzialmente falsa e si può facilmente rovesciare addosso agli arabi.
Quello che ho visto nei miei viaggi in Israele è che gli ebrei israeliani parlano normalmente ebraico tra loro - una persona che dice di non conoscere bene l'ebraico di solito è un turista, e molto più raramente un arabo israeliano.
Se due ebrei israeliani che vengono dallo stesso paese (la maggior parte degli ebrei israeliani d'oggi è nata all'estero e la loro lingua madre non è l'ebraico) s'incontrano spesso si mettono a parlare la loro lingua madre - ma nessuno dice che se due italoamericani a New York parlano tra loro in italiano od in dialetto questo significa che l'inglese non unifica linguisticamente gli USA.
Il caso dei russi è complicato da due fattori: molti di loro non sono di religione ebraica, o non hanno avuto durante il regime sovietico un'educazione ebraica, e quindi non hanno la confidenza con l'ebraico biblico e liturgico che la maggior parte degli ebrei acquisisce nell'infanzia, e su cui si può innestare poi la pratica dell'ebraico contemporaneo.
Aggiungiamo poi il legittimo orgoglio di chi parla una lingua molto nota nel mondo e con una straordinaria letteratura, e la riluttanza ad abbandonare il russo si spiega. Ma non ritengo questo un fallimento dell'ebraico come collante linguistico.
Semmai è un sintomo del fatto che, se una volta l'ambizione di tutti i governi era imporre la lingua ufficiale come lingua unica, ora, con l'incremento dei flussi migratori questa lingua ufficiale (o queste lingue ufficiali) diverranno semplicemente lingue veicolari, ovvero le lingue della pubblica amministrazione e dei media che si rivolgono a tutti i cittadini, che però conosceranno diverse altre lingue, e magari scriveranno letteratura in quelle. Non ritengo negativo che l'italiano diventi una lingua veicolare, non lo ritengo negativo per l'ebraico.
Per quanto riguarda il mondo arabo, viaggi e letture mi hanno convinto di cose poco piacevoli per chi vuole a tutti i costi dimostrare che l'ebraico è una lingua fallimentare.
Perché in Tunisia si parla arabo ed in Sicilia si parlano lingue neolatine (italiano e dialetti siculi)? Perché la Tunisia fu conquistata nel 702 dagli arabi, e la sua arabizzazione non si è mai arrestata; la Sicilia rimase araba soltanto nel periodo dall'827 al 1091, e questo non è bastato a farne un'isola arabofona, tantopiù che dopo la conquista normanna i siciliani di lingua araba e religione mussulmana preferirono fare fagotto.
E' un po' dura rimproverare Israele di non essere riuscito a fare in 62 anni quello che gli emiri di Sicilia non sono riusciti a fare in 264! Senza contare che la maggior parte degli israeliani parla l'ebraico contemporaneo molto meglio di come gli abitanti dei paesi arabi parlano l'arabo classico.
A proposito ... l'arabo classico viene parlato davvero? Se non ci fossero i media, l'arabo classico ed il cinese mandarino sarebbero solo le lingue dei letterati e dei burocrati, che unificano nominalmente immense civiltà i cui abitanti parlano però quotidianamente (e talvolta si arrischiano a scrivere) dei dialetti anche lontanissimi dalla lingua ufficiale.
Io ho studiato (sommariamente) l'ebraico, e sto studiando l'arabo classico - per questo ho potuto fare il confronto grammaticale. Ma io non mi accontento, ed ho a casa una grammatica dell'arabo palestinese (che il defunto Edward Said chiamava la lingua del popolo palestinese), un corso di arabo libanese, ed uno di arabo egiziano. Dovrò un giorno o l'altro andare a caccia di una vecchia descrizione dell'arabo parlato della Libia pubblicata a suo tempo dalla Hoepli e ristampata poi dalla Cisalpino-Goliardica.
Quindi, la situazione linguistica del mondo arabo attuale è simile a quella dell'Alto Medioevo europeo, in cui la gente parlava e pensava in volgare, un volgare che si differenziava a seconda delle regioni, ma scriveva e leggeva ancora in latino.
Peggio ancora: ho degli amici arabi che mi hanno confermato quello che ho letto nel libro "La sciabola e la virgola. La lingua del Corano è all'origine del male arabo" di Chérif Choubachy: se uno si sogna di conversare in arabo classico, tutti lo prendono in giro.
Nel migliore dei casi, si rendono conto che è uno straniero che ha appena iniziato lo studio della lingua araba, e non conosce ancora il dialetto del posto - nelle università italiane infatti si comincia studiando la lingua classica, e poi si passa ad approfondire un dialetto a scelta dello studente. Non è indispensabile invece per chi studia l'italiano o l'inglese studiare anche i dialetti locali, e non esistono dialetti nell'ebraico contemporaneo.
Se aggiungiamo il fatto che capita spesso che due arabi che vengono da regioni molto lontane del mondo arabo preferiscano parlarsi in inglese o francese per evitare equivoci, e che ho conosciuto al Cairo un comico che si guadagnava da vivere mettendo in scena proprio questi equivoci (e faceva ridere a crepapelle le mie amiche egiziane), posso permettermi di dedurre che la lingua araba classica - che è piena di insidie per gli stessi arabofoni "madrelingua", ed è l'unico esempio attuale di lingua la cui grammatica è stata fossilizzata 14 secoli fa, cosa che potrebbe indurre persone più risentite di me a sostenere che non è più naturale di un linguaggio di programmazione per computer - per quanto magnifica, unifica il mondo arabo in modo assai meno efficace di come l'ebraico unifichi gli ebrei israeliani.
Inoltre, non sono stato io, ma Chérif Choubachy, a far notare che eliminare l'analfabetismo nel mondo arabo è molto più difficile che eliminarlo dall'Italia o dalla Spagna o dalla Russia: in questi paesi i ragazzi devono praticamente solo imparare ad associare i suoni alle lettere per essere in grado di leggere e scrivere; nei paesi arabi devono invece imparare una lingua quasi straniera per riuscirci.
Per gli ebrei israeliani la situazione è simile a quella dei paesi di lingua inglese: non si deve imparare una lingua completamente nuova, ma far corrispondere l'ortografia all'ortoepia non è facile.
Un proverbio inglese dice che chi abita in una casa di vetro non deve tirar pietre - ed aggiungo che è meglio studiare le lingue altrui prima di parlarne male per sentito dire.
sabato 27 febbraio 2010
venerdì 26 febbraio 2010
L'ebreo dentro e chi lo vuole sterminare
http://www.nytimes.com/2010/02/25/world/europe/25iht-poland.html
Una lettura superficiale dell'articolo porterebbe soltanto alla conclusione che "nessuno è irrecuperabile"; una lettura più attenta evidenzierebbe che la persona più crudele con gli ebrei è quella che vuole sterminare l'ebreo dentro di sé.
Non è solo la storia di Pawel a mostrarlo - l'espulsione dei "marranos" dalla Spagna nel 1492 e dei "moriscos" nel 1610 ebbe questa motivazione; e credo che all'antisemitismo russo abbia contribuito parecchio la lotta contro i "giudaizzatori", che mescolavano nella dottrina e nel comportamento elementi cristiani ed ebraici.
Il problema più grosso da questo punto di vista è dato dall'antisemitismo presente in buona parte delle dottrine islamiche, che non si alimenta soltanto di alcuni feroci versetti coranici, ma anche del timore che molti "ahadith" (plurale di "hadith", cioè detti e fatti attribuiti a Maometto, e perciò fonte del diritto), già di per sé poco credibili, siano stati inventati da ebrei che si erano convertiti all'islam per danneggiarlo.
Lo studio dell'attendibilità degli "ahadith", è un importante branca del diritto islamico; ma vedo che il modo più efficace per screditare un "hadith" è proprio dichiararlo un'"israiliyya", cioè una panzana di origine ebraica, pleonastica nel migliore dei casi, nociva nel peggiore e più frequente.
Non sembra possibile risolvere il problema nel modo più "ovvio", cioè individuare le "israiliyyat" una volta per tutte e "disinnescarle" trasferendole dalla religione al folklore; con esse i mussulmani dovranno sempre convivere, così come con gli "ahadith" di scarsa attendibilità e su cui talvolta si basano norme di dubbio valore.
Mi chiedo se sarà possibile perlomeno evitare che queste "israiliyyat" motivino un pericoloso odio antisemita, in cui si delegittima l'ebreo fuori per rendere inoffensivo l'ebreo dentro.
Forse il boicottaggio che gli intellettuali egiziani osservano da decenni nei confronti dei loro colleghi israeliani non è soltanto motivato da un malriposto zelo filopalestinese (sostengo il diritto dei palestinesi ad uno stato, ma anche che la cultura dovrebbe essere tenuta fuori da queste contese), ma anche dal timore che rapporti più stretti tra Isreale ed Egitto possano provocare una nuova alluvione di "israiliyyat" - se non nella forma di "ahadith" apocrifi (non è più possibile aggiungerne alle raccolte esistenti, e la tendenza è anzi quella di sfrondarle), nella forma di concetti o modi di pensare che di islamico hanno molto poco.
Mi pare un timore irragionevole, anche se rispecchia quello ebraico di venire assimilati; non saprei però come rassicurare gli ebrei ed i mussulmani che saranno sempre in grado di metabolizzare le influenze esterne senza lasciarsene snaturare.
Una lettura superficiale dell'articolo porterebbe soltanto alla conclusione che "nessuno è irrecuperabile"; una lettura più attenta evidenzierebbe che la persona più crudele con gli ebrei è quella che vuole sterminare l'ebreo dentro di sé.
Non è solo la storia di Pawel a mostrarlo - l'espulsione dei "marranos" dalla Spagna nel 1492 e dei "moriscos" nel 1610 ebbe questa motivazione; e credo che all'antisemitismo russo abbia contribuito parecchio la lotta contro i "giudaizzatori", che mescolavano nella dottrina e nel comportamento elementi cristiani ed ebraici.
Il problema più grosso da questo punto di vista è dato dall'antisemitismo presente in buona parte delle dottrine islamiche, che non si alimenta soltanto di alcuni feroci versetti coranici, ma anche del timore che molti "ahadith" (plurale di "hadith", cioè detti e fatti attribuiti a Maometto, e perciò fonte del diritto), già di per sé poco credibili, siano stati inventati da ebrei che si erano convertiti all'islam per danneggiarlo.
Lo studio dell'attendibilità degli "ahadith", è un importante branca del diritto islamico; ma vedo che il modo più efficace per screditare un "hadith" è proprio dichiararlo un'"israiliyya", cioè una panzana di origine ebraica, pleonastica nel migliore dei casi, nociva nel peggiore e più frequente.
Non sembra possibile risolvere il problema nel modo più "ovvio", cioè individuare le "israiliyyat" una volta per tutte e "disinnescarle" trasferendole dalla religione al folklore; con esse i mussulmani dovranno sempre convivere, così come con gli "ahadith" di scarsa attendibilità e su cui talvolta si basano norme di dubbio valore.
Mi chiedo se sarà possibile perlomeno evitare che queste "israiliyyat" motivino un pericoloso odio antisemita, in cui si delegittima l'ebreo fuori per rendere inoffensivo l'ebreo dentro.
Forse il boicottaggio che gli intellettuali egiziani osservano da decenni nei confronti dei loro colleghi israeliani non è soltanto motivato da un malriposto zelo filopalestinese (sostengo il diritto dei palestinesi ad uno stato, ma anche che la cultura dovrebbe essere tenuta fuori da queste contese), ma anche dal timore che rapporti più stretti tra Isreale ed Egitto possano provocare una nuova alluvione di "israiliyyat" - se non nella forma di "ahadith" apocrifi (non è più possibile aggiungerne alle raccolte esistenti, e la tendenza è anzi quella di sfrondarle), nella forma di concetti o modi di pensare che di islamico hanno molto poco.
Mi pare un timore irragionevole, anche se rispecchia quello ebraico di venire assimilati; non saprei però come rassicurare gli ebrei ed i mussulmani che saranno sempre in grado di metabolizzare le influenze esterne senza lasciarsene snaturare.
mercoledì 24 febbraio 2010
Cultura di sinistra ed 'asabiyya di Berlusconi
http://www.repubblica.it/p olitica/2010/02/24/news/be rlusconi-promotori-2410808 /
Berlusconi dice che la sinistra punta "all'invasione di stranieri perché pensa che si possa cambiare il peso del voto che ha visto la vittoria dell'Italia moderata".
L'accusa è inverosimile, se non altro perché la sinistra sa benissimo che è abbastanza improbabile che i naturalizzati italiani possano diventare così tanti (e così elettoralmente compatti) da cambiare le fortune della sinistra.
Inoltre, quando l'integrazione avrà successo, questo problema smetterà di condizionare i loro comportamenti elettorali, ed i naturalizzati voteranno come gli altri italiani - chi a sinistra, chi al centro, chi a destra. Ci vorranno trecento anni, ma alla fine la variabile "origine etnica" non sarà più elettoralmente significativa.
Se si vuol naturalizzare un buon numero di stranieri, non è per calcolo elettorale, ma per motivi più nobili.
Berlusconi non dice queste cose perché sono ragionevoli, ma perché sono quelle che i suoi elettori vogliono sentire da lui. Se essi fossero dei creazionisti, direbbe loro che i dinosauri sono stati creati insieme con l'uomo e si sono estinti perché dio ha vietato a Noé di caricarli sull'arca.
A questo punto dobbiamo chiederci perché mai gli elettori del PDL temono un'"invasione di stranieri" volta a snaturare l'Italia - e perché io non ho questo timore.
Per me un paese è fatto dalla sua cultura, ovvero da un bene immateriale; caratteristica dei beni immateriali è che chiunque può goderne senza con questo impedirne il godimento altrui, e l'esempio più chiaro è un programma radiofonico: chi lo ascolta non impedisce a nessun altro di farlo.
Per giunta, se ci sono beni immateriali, come i film ed il software, che devono essere sviluppati con strumenti costosi, altri hanno bisogno solo del cervello del loro autore - come le poesie e le narrazioni.
Inoltre i beni immateriali si possono combinare in modo virtualmente illimitato - e buona parte dell'attività degli intellettuali sta nel conciliare idee e concetti solo a prima vista incompatibili.
Questo rende la concorrenza nel campo dei beni immateriali di ben altra portata che in quello dei beni materiali: chi sta mangiando ora un panino infornato da Gianni non sta mangiando un panino infornato da Giorgio; mentre chi legge Dante Alighieri può leggere tranquillamente anche William Shakespeare.
Anzi, è altamente raccomandato, visto che già Tommaso d'Aquino diceva: "Timeo hominem unius libri - Temo l'uomo (che è lettore) di un libro solo".
Ed ora arrivo al punto finale: se la concorrenza tra i produttori di beni materiali livella i guadagni di tutti, quella tra produttori di beni immateriali è invece un possente stimolo creativo, perché ogni autore può riprendere (nel linguaggio informatico si dice "riutilizzare") motivi esposti da altri e rielaborarli in modo originale.
L'autore che con le sue sole idee riuscirebbe a comporre appena una mezza dozzina di opere di buon livello, grazie alle idee che riprende dai suoi colleghi di opere valide può scriverne una sessantina, e senza rendersi reo di plagio se sviluppa queste idee in modo originale e (magari) riconosce i debiti verso chi gliele ha date.
Per un autore creativo non ha perciò senso chiedere l'istituzione di quote nel Parnaso, oppure l'ostracismo di altri autori per motivi politici (stupidaggine in cui eccellono gli egiziani nei confronti degli israeliani) o di altro genere (quanti pregiudizi devono soffrire le donne, i gay, i/le trans quando creano?): più autori ci sono, più idee circolano, più florida è l'arte.
Se io la penso così (anche se chiamarmi "autore creativo" non ha molto senso), non vedo niente di male nell'ingresso degli stranieri in Italia e nel naturalizzarli (salvo demerito, ovviamente), anzi, lo ritengo un modo per dare aria a questo paese ammuffito.
Chi invece tratta il proprio paese come tratterebbe la propria famiglia, ed identifica le ricchezze di entrambi nel loro patrimonio materiale, ragiona invece in modo assai diverso.
Il capofamiglia mediterraneo stereotipico, il protagonista della "Repubblica dei cugini" descritta da Germaine Tillion, ragiona in questo modo: la ricchezza è frutto esclusivo del mio lavoro, e non anche di quello degli altri (non gli viene in mente che non potrebbe coltivare la terra se nessuno infornasse il pane per lui). E poiché questo patrimonio cresce con molta lentezza (e non sono previste innovazioni tecnologiche strabilianti), la ricchezza personale è data soprattutto da ciò che si è ricevuto in eredità.
E' pertanto essenziale che la propria eredità non finisca in mano ad estranei, e mentre chi vive del proprio talento (artistico o manageriale) ritiene l'imposta di successione indispensabile per dare ad ogni generazione eguali opportunità (Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, disse ad un Barack Obama non ancora presidente che un'economia senza imposta di successione era come una squadra nazionale che mandasse alle Olimpiadi i figli ed i nipoti dei campioni del passato, non gli atleti migliori), chi non vive di questo talento la aborrisce.
Che l'economia italiana non sia basata sul talento lo dimostra quest'articolo sull'immobilismo delle società quotate in borsa: in 15 anni (gran parte dei quali sotto il governo di Berlusconi e della destra) nessuna società che rappresenti l'innovazione tecnologica è riuscita a farsi ammettere nell'indice Ftse/MIB, a dimostrazione dell'arretratezza dell'economia italiana.
Ma l'arretratezza non si può risolvere se non si fa ricerca, ed a questo proposito non posso che ripetere quello che ho osservato altrove - cioè che distinguere la "ricerca pura" dalla "ricerca applicata" è un errore colossale, instaurato in Italia dal regime fascista (che così avviò l'uscita dell'Italia dalle grandi nazioni), e che è figlio della stessa mentalità da stereotipico capofamiglia mediterraneo che persegue il "buon matrimonio" che imparenta con una grande e ricca famiglia, e svaluta (nel caso dei maschi) o vieta (nel caso delle femmine) le esperienze che ad esso non portano.
Che questo sia sbagliato in campo sentimentale e sessuale ormai quasi tutti se ne rendono conto; ma pochissimi se ne rendono conto in campo scientifico e culturale. Il risultato è che l'Italia non può progredire perché viene vietato ai suoi scienziati ed uomini di cultura di avere l'apertura mentale che ci vuole per scoprire qualcosa di nuovo.
E questo è più dannoso dei ricorrenti tagli dei fondi alla scuola ed alla ricerca; non si possono perciò creare dei beni immateriali di valore, ed il ricco continua ad essere colui che ha un grande patrimonio materiale, e la cui famiglia ha saputo difenderlo nel corso delle generazioni dagli "estranei".
Se una volta l'estraneo più temuto veniva dal grembo della moglie o delle congiunte, ora viene da fuori. Ma la mentalità del capofamiglia mediterraneo è sempre quella.
Per riprendere l'esempio di prima, le figlie di costui tradizionalmente non contano per se stesse, ma come pedine matrimoniali - in quanto consentono di legare l'eredità della propria famiglia con quella di altre famiglie. Sessualità e sentimenti divengono risorse economiche, che vanno trattate con la stessa oculatezza dei terreni agricoli.
Ma il patrimonio familiare ora non è dato soltanto dai diritti sui beni immobili o sui beni materiali; anche un diritto di relazione, come un rapporto di lavoro oppure una funzione pubblica, arricchiscono la famiglia. Ed infatti ora si dice che siano le loro stesse mamme ad incoraggiare le figlie a "concedersi al drago" in cambio di un lavoro od una carica. La sessualità è sempre una risorsa economica familiare.
Inoltre, se la primaria fonte di ricchezza e legittimazione per una persona viene dalla propria famiglia, sviluppare una lealtà nei confronti di altre istituzioni diventa impossibile.
Cercare un lavoro od un'opportunità economica senza raccomandazioni né mazzette (in denaro od altra "utilità"), solo sulla base dei propri meriti, giova alla collettività, ma offende la propria famiglia, che oltretutto viene impoverita dal non partecipare a questo scambio di favori.
L'idea che possano esserci delle regole uguali per tutti, che permettano ai singoli individui di essere rispettati in quanto tali e di emergere in proporzione ai loro meriti ed indipendentemente dalla loro origine familiare od etnica, non può entrare in testa a questi capifamiglia mediterranei - se si professano liberali, è perché del liberalismo apprezzano solo la libertà di contratto (che arricchisce) e non l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (che mette in pericolo il rango sociale della propria famiglia).
Curiosamente per questi islamofobi ignoranti, l'autore che meglio ha spiegato il funzionamento di queste famiglie è un arabo mussulmano, 'Abd-ar-Rahman Abu Zayd ibn Muhammad ibn Muhammad ibn Khaldun al-Hadrami (1332-1406) - più noto come Ibn Khaldun; nella sua "Muqaddimah = Introduzione [alla storia universale]" egli spiegava che la forza delle dinastie al potere negli stati sia mussulmani che infedeli stava nella loro "'asabiyya = lealtà di gruppo", che dava loro la forza di conquistare e conservare il potere.
Quando gli agi della vita di corte indebolivano la tempra dei regnanti, e si cominciavano ad affidare ruoli politici ed amministrativi importanti ad estranei, l''asabiyya si indeboliva ed alla fine la dinastia si avviava verso la decadenza, esercitando un potere solo di nome, oppure venendo semplicemente deposta dal trono.
Dove lo stato e la società civile sono deboli, e questo accade in gran parte d'Italia, le famiglie si comportano come le dinastie studiate da Ibn Khaldun, e le reazioni di Berlusconi agli scandali che hanno colpito lui ed il suo entourage negli ultimi tempi sono quelle del capofamiglia che della sua famiglia difende anche le mele marce, e coloro che ritengono che Berlusconi si stia avviando al tramonto politico lo deducono dall'indebolimento dell''asabiyya nel PDL, non dal peggioramento della qualità delle sue idee.
"Per chi non conosce il concetto di 'asabiyya è fonte di stupore che il premier (Berlusconi) ed il ministro degli esteri (Frattini) di un governo che ha fatto dell'islamofobia e dell'anticomunismo uno dei suoi pilastri del suo potere si mostrino così pronti a schierarsi con la Libia (il cui capo, il colonnello Gheddafi, dichiara di richiamarsi al "socialismo islamico") nella lite che ha con la Svizzera, che ha incluso 186 libici nella lista delle persone a cui è vietato entrare nell'area Schengen.
In realtà, la Svizzera si ispira nella controversia a princìpi generali ed astratti, e Gheddhafi, che ha un figlio su cui pende un mandato d'arresto svizzero, alla più pura 'asabiyya che gli impone di difendere l'onore della famiglia ad ogni costo. E Berlusconi capisce meglio l''asabiyya dei princìpi, specialmente quando il capoclan ('asaba vuol dire letteralmente cintura, banda, masnada, clan patrilineare) ha le grinfie sui rubinetti del petrolio.
Invece gli uomini politici di sinistra, quando vengono colti con le mani nel sacco (purtroppo capita anche a loro), normalmente si dimettono per separare le loro vicende personali da quelle del partito e dell'idea che rappresenta. Mentre l''asabiyya impone di difendere i membri del clan ad ogni costo (perché è solo per l'appartenenza al clan che sono stati nominati), vivere seguendo dei princìpi (ed essere stati nominati per essersi impegnati a rispettarli) significa dimettersi quando di questi princìpi non ci si è dimostrati all'altezza.
Robert Putnam faceva notare che il PCI era più forte nelle regioni d'Italia dove fin dal Medioevo c'erano una società civile e politica forti che avevano indebolito le grandi famiglie aristocratiche ed avevano ottenuto la lealtà dei cittadini al loro posto. Non così era nel resto d'Italia, e specialmente nelle zone in cui vigeva il "familismo amorale" descritto da Edward Banfield.
E, se è vero che l'obbiettivo del PDL in queste elezioni regionali è quello di rinchiudere la sinistra nel ridotto costituito da Emilia, Toscana ed Umbria, ciò significa che lo stesso PDL si rende conto che non è possibile imporre a chi vuole un governo basato sulle "virtù civiche" un governo basato sull''asabiyya.
Scrivo questo per far notare che l'atteggiamento verso gli stranieri non è parte trascurabile del programma politico del PDL, e che le tirate antiimmigrati di Berlusconi non sono una concessione tattica alla Lega, ma il logico corollario di un modello di società in cui la mobilità sociale è una chimera, la corruzione è un problema solo se si viene scoperti, l'eguaglianza è un mito, la ricerca scientifica è uno spreco, l'arte è un modo di farsi pubblicità - e le donne sono solo come le vuole il maschio.
Se questa è la società che si vuole per i propri figli di sangue, figuriamoci quello che si vuole offrire ai figli adottivi. Il commento sulle "belle ragazze" albanesi non è una sventatezza, ma mostra quello che Berlusconi vuole che diventi la società italiana.
Berlusconi dice che la sinistra punta "all'invasione di stranieri perché pensa che si possa cambiare il peso del voto che ha visto la vittoria dell'Italia moderata".
L'accusa è inverosimile, se non altro perché la sinistra sa benissimo che è abbastanza improbabile che i naturalizzati italiani possano diventare così tanti (e così elettoralmente compatti) da cambiare le fortune della sinistra.
Inoltre, quando l'integrazione avrà successo, questo problema smetterà di condizionare i loro comportamenti elettorali, ed i naturalizzati voteranno come gli altri italiani - chi a sinistra, chi al centro, chi a destra. Ci vorranno trecento anni, ma alla fine la variabile "origine etnica" non sarà più elettoralmente significativa.
Se si vuol naturalizzare un buon numero di stranieri, non è per calcolo elettorale, ma per motivi più nobili.
Berlusconi non dice queste cose perché sono ragionevoli, ma perché sono quelle che i suoi elettori vogliono sentire da lui. Se essi fossero dei creazionisti, direbbe loro che i dinosauri sono stati creati insieme con l'uomo e si sono estinti perché dio ha vietato a Noé di caricarli sull'arca.
A questo punto dobbiamo chiederci perché mai gli elettori del PDL temono un'"invasione di stranieri" volta a snaturare l'Italia - e perché io non ho questo timore.
Per me un paese è fatto dalla sua cultura, ovvero da un bene immateriale; caratteristica dei beni immateriali è che chiunque può goderne senza con questo impedirne il godimento altrui, e l'esempio più chiaro è un programma radiofonico: chi lo ascolta non impedisce a nessun altro di farlo.
Per giunta, se ci sono beni immateriali, come i film ed il software, che devono essere sviluppati con strumenti costosi, altri hanno bisogno solo del cervello del loro autore - come le poesie e le narrazioni.
Inoltre i beni immateriali si possono combinare in modo virtualmente illimitato - e buona parte dell'attività degli intellettuali sta nel conciliare idee e concetti solo a prima vista incompatibili.
Questo rende la concorrenza nel campo dei beni immateriali di ben altra portata che in quello dei beni materiali: chi sta mangiando ora un panino infornato da Gianni non sta mangiando un panino infornato da Giorgio; mentre chi legge Dante Alighieri può leggere tranquillamente anche William Shakespeare.
Anzi, è altamente raccomandato, visto che già Tommaso d'Aquino diceva: "Timeo hominem unius libri - Temo l'uomo (che è lettore) di un libro solo".
Ed ora arrivo al punto finale: se la concorrenza tra i produttori di beni materiali livella i guadagni di tutti, quella tra produttori di beni immateriali è invece un possente stimolo creativo, perché ogni autore può riprendere (nel linguaggio informatico si dice "riutilizzare") motivi esposti da altri e rielaborarli in modo originale.
L'autore che con le sue sole idee riuscirebbe a comporre appena una mezza dozzina di opere di buon livello, grazie alle idee che riprende dai suoi colleghi di opere valide può scriverne una sessantina, e senza rendersi reo di plagio se sviluppa queste idee in modo originale e (magari) riconosce i debiti verso chi gliele ha date.
Per un autore creativo non ha perciò senso chiedere l'istituzione di quote nel Parnaso, oppure l'ostracismo di altri autori per motivi politici (stupidaggine in cui eccellono gli egiziani nei confronti degli israeliani) o di altro genere (quanti pregiudizi devono soffrire le donne, i gay, i/le trans quando creano?): più autori ci sono, più idee circolano, più florida è l'arte.
Se io la penso così (anche se chiamarmi "autore creativo" non ha molto senso), non vedo niente di male nell'ingresso degli stranieri in Italia e nel naturalizzarli (salvo demerito, ovviamente), anzi, lo ritengo un modo per dare aria a questo paese ammuffito.
Chi invece tratta il proprio paese come tratterebbe la propria famiglia, ed identifica le ricchezze di entrambi nel loro patrimonio materiale, ragiona invece in modo assai diverso.
Il capofamiglia mediterraneo stereotipico, il protagonista della "Repubblica dei cugini" descritta da Germaine Tillion, ragiona in questo modo: la ricchezza è frutto esclusivo del mio lavoro, e non anche di quello degli altri (non gli viene in mente che non potrebbe coltivare la terra se nessuno infornasse il pane per lui). E poiché questo patrimonio cresce con molta lentezza (e non sono previste innovazioni tecnologiche strabilianti), la ricchezza personale è data soprattutto da ciò che si è ricevuto in eredità.
E' pertanto essenziale che la propria eredità non finisca in mano ad estranei, e mentre chi vive del proprio talento (artistico o manageriale) ritiene l'imposta di successione indispensabile per dare ad ogni generazione eguali opportunità (Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, disse ad un Barack Obama non ancora presidente che un'economia senza imposta di successione era come una squadra nazionale che mandasse alle Olimpiadi i figli ed i nipoti dei campioni del passato, non gli atleti migliori), chi non vive di questo talento la aborrisce.
Che l'economia italiana non sia basata sul talento lo dimostra quest'articolo sull'immobilismo delle società quotate in borsa: in 15 anni (gran parte dei quali sotto il governo di Berlusconi e della destra) nessuna società che rappresenti l'innovazione tecnologica è riuscita a farsi ammettere nell'indice Ftse/MIB, a dimostrazione dell'arretratezza dell'economia italiana.
Ma l'arretratezza non si può risolvere se non si fa ricerca, ed a questo proposito non posso che ripetere quello che ho osservato altrove - cioè che distinguere la "ricerca pura" dalla "ricerca applicata" è un errore colossale, instaurato in Italia dal regime fascista (che così avviò l'uscita dell'Italia dalle grandi nazioni), e che è figlio della stessa mentalità da stereotipico capofamiglia mediterraneo che persegue il "buon matrimonio" che imparenta con una grande e ricca famiglia, e svaluta (nel caso dei maschi) o vieta (nel caso delle femmine) le esperienze che ad esso non portano.
Che questo sia sbagliato in campo sentimentale e sessuale ormai quasi tutti se ne rendono conto; ma pochissimi se ne rendono conto in campo scientifico e culturale. Il risultato è che l'Italia non può progredire perché viene vietato ai suoi scienziati ed uomini di cultura di avere l'apertura mentale che ci vuole per scoprire qualcosa di nuovo.
E questo è più dannoso dei ricorrenti tagli dei fondi alla scuola ed alla ricerca; non si possono perciò creare dei beni immateriali di valore, ed il ricco continua ad essere colui che ha un grande patrimonio materiale, e la cui famiglia ha saputo difenderlo nel corso delle generazioni dagli "estranei".
Se una volta l'estraneo più temuto veniva dal grembo della moglie o delle congiunte, ora viene da fuori. Ma la mentalità del capofamiglia mediterraneo è sempre quella.
Per riprendere l'esempio di prima, le figlie di costui tradizionalmente non contano per se stesse, ma come pedine matrimoniali - in quanto consentono di legare l'eredità della propria famiglia con quella di altre famiglie. Sessualità e sentimenti divengono risorse economiche, che vanno trattate con la stessa oculatezza dei terreni agricoli.
Ma il patrimonio familiare ora non è dato soltanto dai diritti sui beni immobili o sui beni materiali; anche un diritto di relazione, come un rapporto di lavoro oppure una funzione pubblica, arricchiscono la famiglia. Ed infatti ora si dice che siano le loro stesse mamme ad incoraggiare le figlie a "concedersi al drago" in cambio di un lavoro od una carica. La sessualità è sempre una risorsa economica familiare.
Inoltre, se la primaria fonte di ricchezza e legittimazione per una persona viene dalla propria famiglia, sviluppare una lealtà nei confronti di altre istituzioni diventa impossibile.
Cercare un lavoro od un'opportunità economica senza raccomandazioni né mazzette (in denaro od altra "utilità"), solo sulla base dei propri meriti, giova alla collettività, ma offende la propria famiglia, che oltretutto viene impoverita dal non partecipare a questo scambio di favori.
L'idea che possano esserci delle regole uguali per tutti, che permettano ai singoli individui di essere rispettati in quanto tali e di emergere in proporzione ai loro meriti ed indipendentemente dalla loro origine familiare od etnica, non può entrare in testa a questi capifamiglia mediterranei - se si professano liberali, è perché del liberalismo apprezzano solo la libertà di contratto (che arricchisce) e non l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (che mette in pericolo il rango sociale della propria famiglia).
Curiosamente per questi islamofobi ignoranti, l'autore che meglio ha spiegato il funzionamento di queste famiglie è un arabo mussulmano, 'Abd-ar-Rahman Abu Zayd ibn Muhammad ibn Muhammad ibn Khaldun al-Hadrami (1332-1406) - più noto come Ibn Khaldun; nella sua "Muqaddimah = Introduzione [alla storia universale]" egli spiegava che la forza delle dinastie al potere negli stati sia mussulmani che infedeli stava nella loro "'asabiyya = lealtà di gruppo", che dava loro la forza di conquistare e conservare il potere.
Quando gli agi della vita di corte indebolivano la tempra dei regnanti, e si cominciavano ad affidare ruoli politici ed amministrativi importanti ad estranei, l''asabiyya si indeboliva ed alla fine la dinastia si avviava verso la decadenza, esercitando un potere solo di nome, oppure venendo semplicemente deposta dal trono.
Dove lo stato e la società civile sono deboli, e questo accade in gran parte d'Italia, le famiglie si comportano come le dinastie studiate da Ibn Khaldun, e le reazioni di Berlusconi agli scandali che hanno colpito lui ed il suo entourage negli ultimi tempi sono quelle del capofamiglia che della sua famiglia difende anche le mele marce, e coloro che ritengono che Berlusconi si stia avviando al tramonto politico lo deducono dall'indebolimento dell''asabiyya nel PDL, non dal peggioramento della qualità delle sue idee.
"Per chi non conosce il concetto di 'asabiyya è fonte di stupore che il premier (Berlusconi) ed il ministro degli esteri (Frattini) di un governo che ha fatto dell'islamofobia e dell'anticomunismo uno dei suoi pilastri del suo potere si mostrino così pronti a schierarsi con la Libia (il cui capo, il colonnello Gheddafi, dichiara di richiamarsi al "socialismo islamico") nella lite che ha con la Svizzera, che ha incluso 186 libici nella lista delle persone a cui è vietato entrare nell'area Schengen.
In realtà, la Svizzera si ispira nella controversia a princìpi generali ed astratti, e Gheddhafi, che ha un figlio su cui pende un mandato d'arresto svizzero, alla più pura 'asabiyya che gli impone di difendere l'onore della famiglia ad ogni costo. E Berlusconi capisce meglio l''asabiyya dei princìpi, specialmente quando il capoclan ('asaba vuol dire letteralmente cintura, banda, masnada, clan patrilineare) ha le grinfie sui rubinetti del petrolio.
Invece gli uomini politici di sinistra, quando vengono colti con le mani nel sacco (purtroppo capita anche a loro), normalmente si dimettono per separare le loro vicende personali da quelle del partito e dell'idea che rappresenta. Mentre l''asabiyya impone di difendere i membri del clan ad ogni costo (perché è solo per l'appartenenza al clan che sono stati nominati), vivere seguendo dei princìpi (ed essere stati nominati per essersi impegnati a rispettarli) significa dimettersi quando di questi princìpi non ci si è dimostrati all'altezza.
Robert Putnam faceva notare che il PCI era più forte nelle regioni d'Italia dove fin dal Medioevo c'erano una società civile e politica forti che avevano indebolito le grandi famiglie aristocratiche ed avevano ottenuto la lealtà dei cittadini al loro posto. Non così era nel resto d'Italia, e specialmente nelle zone in cui vigeva il "familismo amorale" descritto da Edward Banfield.
E, se è vero che l'obbiettivo del PDL in queste elezioni regionali è quello di rinchiudere la sinistra nel ridotto costituito da Emilia, Toscana ed Umbria, ciò significa che lo stesso PDL si rende conto che non è possibile imporre a chi vuole un governo basato sulle "virtù civiche" un governo basato sull''asabiyya.
Scrivo questo per far notare che l'atteggiamento verso gli stranieri non è parte trascurabile del programma politico del PDL, e che le tirate antiimmigrati di Berlusconi non sono una concessione tattica alla Lega, ma il logico corollario di un modello di società in cui la mobilità sociale è una chimera, la corruzione è un problema solo se si viene scoperti, l'eguaglianza è un mito, la ricerca scientifica è uno spreco, l'arte è un modo di farsi pubblicità - e le donne sono solo come le vuole il maschio.
Se questa è la società che si vuole per i propri figli di sangue, figuriamoci quello che si vuole offrire ai figli adottivi. Il commento sulle "belle ragazze" albanesi non è una sventatezza, ma mostra quello che Berlusconi vuole che diventi la società italiana.
Pittoresca descrizione dello stato di diritto in Egitto
Un'amica che vive al Cairo mi ha fatto notare che il governo egiziano tratta meglio i turisti dei suoi cittadini.
Per farmi capir meglio, mi ha spiegato che vuol divorziare dal marito, ma che lei si trova obbligata a capire i suoi comportamenti, in quanto la sua professione di giornalista gli fa sentire sul collo il fiato del regime!
Quante sono le donne sulla via del divorzio tanto comprensive verso il loro nemico domestico?
Per farmi capir meglio, mi ha spiegato che vuol divorziare dal marito, ma che lei si trova obbligata a capire i suoi comportamenti, in quanto la sua professione di giornalista gli fa sentire sul collo il fiato del regime!
Quante sono le donne sulla via del divorzio tanto comprensive verso il loro nemico domestico?
Iscriviti a:
Post (Atom)